18 febbraio 2022
Qualche timido passo avanti da parte di governi e istituzioni, mentre il pianeta sembra aver preso la rincorsa verso il baratro. Di fronte alla sfida del clima, uomo e natura viaggiano a velocità diverse. E la sproporzione fra la dimensione del pericolo e l’efficacia delle risposte messe in campo è oggi più che mai evidente. Il cambiamento climatico avanza a grandi falcate, insieme agli altri e correlati fattori della crisi ecologica: la perdita di biodiversità, l’inquinamento dell’acqua, dell’aria e del suolo, la dissoluzione di molti ecosistemi. Posto davanti a quest’inesorabile smottamento degli equilibri naturali, l’essere umano, principale se non unico artefice del disastro, riesce a compiere solo poche e incerte mosse. Come dimostrano i risultati deludenti della recente Cop26.
Gli impegni al ribasso assunti dai governi al termine della conferenza di Glasgow rappresentano un fallimento della volontà e dell’intelligenza
Gli impegni al ribasso assunti dai governi al termine della conferenza di Glasgow rappresentano un fallimento della volontà e dell’intelligenza. Di più: segnano quasi un’eclissi del nostro primordiale istinto di autoconservazione. Il rapporto dell’uomo con la Terra, casa comune generatrice e custode della vita, si è così sgretolato nel tempo, che oggi abbiamo perso di vista il nesso indissolubile fra la sua e la nostra sopravvivenza. I leader del mondo, con grande ritardo, hanno raccolto le preoccupazioni che scienziati, attivisti e semplici cittadini esprimono da anni, per non dire decenni. Oggi in pochi si arrischiano a negare sfacciatamente i pericoli del surriscaldamento globale, sebbene alcuni tendano ancora a minimizzare o comunque allontanare da sé qualsiasi responsabilità. Ma l’accresciuta consapevolezza fatica a tradursi in scelte concrete, condivise e radicali.
Solo quando il potere economico accetterà di rivedere i propri profitti in nome dell’equità e dell’ambiente vinceremo la sfida
Tutta colpa della politica? Certamente no. Gli stili di vita dei singoli e delle comunità, le abitudini di consumo ormai radicate, le comodità a cui è difficile rinunciare contano molto nel determinare un progressivo aggravarsi della situazione. Ma è dai governi che deve arrivare un’indicazione chiara a cambiare la rotta. È compito della politica leggere i problemi collettivi, rintracciarne le cause e studiare possibili soluzioni, da attuare poi tutti insieme. Oggi invece essa sembra rinunciare a questo ruolo di indirizzo, ritrarsi di fronte a questa responsabilità di prefigurare e poi guidare il cambiamento. E non soltanto rispetto al tema ambientale. Sono diversi i fronti sui quali chi ha incarichi di governo, a livello nazionale e sovranazionale, si dimostra debole e poco lungimirante. Talvolta per incapacità, più spesso perché succube di interessi diversi da quelli collettivi, e in particolare condizionato dai potentati economici e dai loro obiettivi di profitto.
Di fronte alla sfida del clima, uomo e natura viaggiano a velocità diverse
Quando l’attenzione al bene privato supera quella al bene comune, la giustizia è sempre sconfitta. Ecco perché, come sempre ci ricorda Papa Francesco, giustizia sociale e giustizia ambientale sono due facce della stessa medaglia. Due obiettivi inscindibili, da raggiungere attraverso un’unica strada di consapevolezza e impegno, che parte dalla messa in discussione dell’attuale paradigma di sviluppo. Se i leader mondiali parlano di transizione ecologica, il Papa ci invita a una più ambiziosa e radicale conversione ecologica, che significa ribaltare il rapporto tra economia ed ecologia. In questo mondo è l’economia a comandare, ma è un paradosso, una stortura. Perché il nòmos dell’economia – le leggi che governano i mercati – devono scaturire dal lògos dell’ecologia, cioè dalla conoscenza e sapienza che riconosce il senso, il valore, la funzione del nostro abitare il mondo e la Terra. Un’economia senza lògos è un’economia distruttiva e alla fine autodistruttiva. Un agire cieco e sordo, incapace di sopravvivere a se stesso.
Le politiche per il clima non possono essere dei rimedi emergenziali e passeggeri. Devono riflettere un cambiamento complessivo del paradigma tecnocratico che ci ha portati a questo punto. Inutile allocare qualche milione qua e qualche altro là, senza sovvertire le regole che ancora vengono dogmaticamente propugnate dai padroni dell’economia: quelle del liberismo come sistema predatorio e totalmente svincolato dall’etica. Un sistema che penalizza i Paesi più poveri e le fasce vulnerabili della popolazione, sui quali adesso rischiano di scaricarsi anche i costi delle riforme verdi.
L’attenzione all’ambiente non può essere un lusso delle classi e delle nazioni agiate a discapito di quelle più deboli. Soltanto quando chi detiene il potere economico accetterà di vedere i propri esorbitanti profitti erosi in nome dell’equità e dell’ambiente potremo fare dei veri passi avanti. L’alternativa non esiste, perché la legge del più forte in questo caso finirà col ritorcersi anche contro i forti, o perlomeno contro i loro discendenti. La violenza degli eventi atmosferici, la potenza degli elementi naturali che si ribellano, l’incredibile capacità di adattamento delle specie più primordiali – come virus e batteri – ci metterà all’angolo.
L’attenzione all’ambiente non può essere un lusso delle classi e delle nazioni agiate a discapito di quelle più deboli
Ma non è ancora tardi! Siamo ancora in tempo per capire quanto sia vana la nostra presunzione di dominio totale sul mondo, e quanto viceversa determinante possa essere il nostro impegno individuale e collettivo nella direzione giusta. Per questo, quando si parla degli enormi investimenti necessari, spero sia chiaro che sono investimenti non solo di natura economica, ma anche e soprattutto educativa e culturale.
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