Pfas, un filo rosso tra Miteni e Solvay

Dal processo per il caso dei Pfas della Miteni, in corso a Vicenza, emergono i rapporti con la Solvay di Spinetta Marengo per la produzione di cC6O4, ma anche per lo scambio di informazioni sui rischi sanitari e il ruolo di alcuni dirigenti. Ad Alessandria si indaga, ma gli ambientalisti temono che tutto si fermi

Laura Fazzini

Laura FazziniGiornalista

13 ottobre 2022

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C’è un filo rosso che lega i due principali casi italiani di inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (pfas), quello della Miteni a Trissino (Vicenza) e quello a Spinetta Marengo (Alessandria), nello stabilimento della Solvay. Le due società chimiche hanno collaborato per anni nella produzione di una sostanza, il cC6O4, che ha contaminato le falde acquifere venete e negli alimenti prodotti ad Alessandria. Questo e altri legami sono emersi dalla testimonianza resa dal maresciallo Manuel Tagliaferri, del Nucleo operativo ecologico (Noe) dei carabinieri, nel processo davanti alla corte d’assise di Vicenza, che ha fornito elementi che potrebbero interessare anche gli investigatori che indagano sull’inquinamento a Spinetta Marengo.

Stando a quanto è emerso nell’indagine del Noe, la terza più importante multinazionale della chimica, Solvay, intorno al 2020 produceva nello stabilimento Miteni un Pfas senza che ci fosse l’autorizzazione. Lo ha spiegato, giovedì 6 ottobre, il maresciallo illustrando i contenuti di un verbale del 15 ottobre 2013 redatto da Arpa alla fine di un sopralluogo nella Miteni.

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Il verbale dell’Arpa e il mancato controllo

Nel documento di quasi dieci anni fa, firmato da Vincenzo Restaino (già comparso in tribunale come teste a fine 2021), erano elencate le sostanza prodotte da Miteni in quel periodo: due vecchi tipi di Pfas già considerati pericolosi, una sostanza in fase di produzione e una in attesa di autorizzazione come rifiuto. La sostanza prodotta compare nel verbale con la sigla cC6O4. Si tratta di un prodotto realizzato per sostituire il più vecchio Pfas, il Pfoa, considerato tossico, vietato dal 2013 e ritrovato sia nel sangue dei cittadini sia nelle acque potabili di tre province venete.

Da quella sigla l’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) del Veneto avrebbe dovuto risalire a chi aveva registrato la sostanza nel database europeo (Reach) per capirne la provenienza. Il cC6O4 era stato registrato nel 2011 sia dall’azienda vicentina, sia dalla sede di Bollate della Solvay Solexis, dove passano tutte le produzioni ancora in fase di sperimentazione prima di transitare allo stabilimento di Spinetta Marengo. Tuttavia, durante la sua testimonianza in aula, Restaino non ha detto di aver trovato già nel 2013 questa produzione attiva e anzi ha confermato come Arpa abbia saputo del cC6O4 soltanto in seguito all’autodenuncia della ditta Miteni nel luglio 2018. Per anni, dunque, l’Arpa Veneto ha ignorato la produzione di questa sostanza nociva.

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Le mail interne del 2011

Questo verbale di Arpa datato ottobre 2013 è il secondo collegamento tra Miteni e Solvay Solexis che il maresciallo Tagliaferri ha messo in evidenza. Ce n’è un altro, risalente a due anni prima, su cui l’investigatore si era concentrato nelle precedenti udienze, analizzando i contenuti di alcune mail spedite nel novembre 2011 dai tecnici del laboratorio interno di Miteni ai dirigenti per aggiornarli sulla lavorazione del cC6O4.

Tutto inizia da un documento tecnico: una prima scheda di produzione del cC6O4 trovata in Miteni e datata 30 giugno 2010, in cui viene descritto il processo di lavorazione e di smaltimento, e dove viene sconsigliato lo scarico in acque reflue (Da una stima fatta da Arpa nel 2021, le acque contaminate della Miteni sono arrivate a 74 chilometri di distanza).

Da questa scheda arriviamo al 30 luglio 2011, quando il consiglio di amministrazione di Miteni in videoconferenza approva il contratto relativo alla produzione di cloruro di ammonio cC6O4 che la società Solvay Solexis aveva mandato a fine 2010. Alcuni mesi dopo, il 30 novembre 2011, alcuni dirigenti Solvay Solexis visitano l’impianto Miteni per discutere su come ampliare la produzione del loro nuovo prodotto, che deve essere ancora registrato, come impongono le norme europee sull’industria chimica.

Se la produzione di una sostanza supera la tonnellata annua, bisogna segnalarlo alle autorità, così che si possano tracciare i trasporti, monitorare il rilascio nell’ambiente e predisporre dei piani per eventuali emergenze. Inoltre sia Miteni sia Solvay sono tenute a rispettare la direttiva Seveso, una legge europea che vincola le produzioni chimiche alla richiesta di autorizzazione alle istituzioni territoriali. Tuttavia – da quanto emerso nelle inchieste dei carabinieri – nel 2011 non sono state fatte richieste di autorizzazioni né da Miteni né da Solvay per questa produzione di cC6O4. Nessuna istituzione con compiti di monitoraggio ambientale in Veneto o Piemonte viene contattata.

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Alla Miteni i dipendenti sapevano, i dirigenti no

Nel 2013, l’anno del verbale di Arpa, la media nel sangue degli operai è 16 nanogrammi per milligrammo, il doppio dell’attuale soglia massima

Sembra difficile che nessuno dei circa 120 operai Miteni non sapesse di questa nuova sostanza. Nel corso del 2011 vengono spedite dal polo chimico alessandrino di Solvay Solexis a Miteni quasi cinque tonnellate di resina di cC6O4, lavorata e riconsegnata al mittente. Già in quell’anno è rintracciato nel sangue degli operai esposti e nel 2013, l’anno del verbale di Arpa, la media nel sangue degli operai è 16 nanogrammi per milligrammo, il doppio dell’attuale soglia massima.

In una mail del primo febbraio 2013 un tecnico del laboratorio interno di Miteni, Camillo Zarantonello, domanda ai dirigenti Miteni, Luigi Guarracino e Davide Drusian – entrambi sotto processo ora a Vicenza – cosa fare degli oltre cento fusti contenenti rifiuti di cC6O4. Chiede se sia possibile rispedirli ad Alessandria o smaltirli come Miteni, essendo la ditta in conto terzi per Solvay. Se nel 2013 ci sono già oltre cento fusti pieni di residui di lavorazione: sembra poco probabile che la produzione sia partita nel 2018, come diceva il dirigente Arpa in tribunale.

Questa domanda è stata fatta a un testimone, Francisco Casado Moreno, addetto al controllo di qualità alla Miteni tra il 2008 e il 2015 e destinatario di tutte queste mail riguardanti la lavorazione del cC6O4. L’ex dipendente – con un dottorato in chimica e un’enorme esperienza nel settore – davanti alla corte d’assise non ha parlato di questa produzione ma ha confermato che l'azienda non aveva la metodologia adatta a cercare le nuove produzioni, come il cC6O4, negli scarichi industriali.

Due aziende, un medico esperto e molti rischi

“Correlazione significativa tra i bambini nati con livelli più elevati di Pfos e Pfoa e la diminuzione del peso alla nascita e della circonferenza cranica”Relazione del 24 agosto 2007

I rischi sanitari a cui gli operai venivano esposti lavorando i Pfas sono stati al centro dell'ultima parte della lunga deposizione del maresciallo Tagliaferri, anche se il filone sanitario non rientra nel processo ambientale più importante attualmente aperto in Italia, per numero di parti civili ed estensione del territorio contaminato, ma fa parte di un’inchiesta aperta nel 2020 e chiusa di recente, sempre condotta dal Nucleo ecologico dei carabinieri di Treviso, sulla sorveglianza interna allo stabilimento, gestita per oltre trent’anni dal medico Giovanni Costa.

Sebbene Costa non sia imputato, di lui si è parlato anche nel processo in corso. D’altronde la sua è una figura centrale: nel 2000 il medico partecipava a un gruppo internazionale di lavoro composto dalle otto maggiori produttrici di Pfas, tra le quali Miteni, rappresentata da Costa, e Solvay Solexis, dal 2002 rappresentata da Giuseppe Malinverno. Solvay Solexis sostiene gli studi di questo gruppo con oltre 100mila dollari per monitorare i possibili effetti del Pfoa negli operai.

Nei computer di Costa, in seguito a una perquisizione del 2017 a casa del medico e nel suo ufficio al Policlinico di Milano, i carabinieri hanno trovato una relazione datata 2006 da cui emerge un dato: “Per il Pfos gli studi dimostrano tossicità per lo sviluppo prenatale nel ratto e nel coniglio. Sono state inoltre osservate diminuzioni significative del peso corporeo fetale e aumenti significativi di anomalie esterne e viscerali, ossificazione ritardata e variazioni scheletriche”. Un’ulteriore relazione di Costa, del 24 agosto 2007, è destinata a Miteni e tra le società anche Solvay Solexis. Da questo documento emerge la “correlazione significativa tra i bambini nati con livelli più elevati di Pfos e Pfoa e la diminuzione del peso alla nascita e della circonferenza cranica”. Il medico di Miteni era al corrente dei rischi per la salute.

Una connessione tra Miteni e Solvay Solexis emerge anche da una mail trovata nel server di posta di Costa, spedita da Ilaria Colombo, attuale dipendente Solvay Solexis che rappresenta la società negli incontri sugli impatti sanitari delle produzioni attive di Spinetta Marengo. La mail è del 14 marzo 2005, terzo anno di attività ad Alessandria di Solvay Solexis, e Colombo spedisce al medico i dati sui rischi sanitari degli operai della multinazionale Dupont. Si tratta della seconda azienda mondiale per produzione di perfluorurati (Solvay Solexis attualmente è terza nel mondo, dopo 3M e appunto Dupont) che negli Usa è stata più volte costretta a risarcire per centinaia di milioni di euro i cittadini ammalati per la contaminazione da Pfas nelle falde acquifere.

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La collaborazione tra Miteni e Solvay Solexis

Spinetta Marengo (Alessandria), lo stabilimento della Solvay (Foto Laura Fazzini)
Spinetta Marengo (Alessandria), lo stabilimento della Solvay (Foto Laura Fazzini)

Stranamente una multinazionale come Solvay, che nel 2002 arriva a Spinetta Marengo con un investimento di oltre 600 milioni di euro e in meno di cinque anni raddoppia il suo fatturato solo con la produzione di perfluorurati, fa lavorare il suo nuovo prodotto a un concorrente come Miteni, che ha grosse difficoltà economiche: nel 2009 viene venduta dalla giapponese Mitsubishi per un solo euro, malgrado il valore fosse di oltre 33 milioni, alla sezione chimica della multinazionale International Chemicals Group, la Weylchem.

Con il cambio di proprietà arrivano nuovi dirigenti e nel febbraio 2009 si insedia Luigi Guarracino, ingegnere con ruoli importanti negli stabilimenti della Montedison a Bussi sul Tirino (Pescara) e poi alla Solvay di Spinetta Marengo. Fin da subito uno dei suoi obiettivi è ottenere una specifica certificazione ambientale (la ISO 140001 che riduce la responsabilità in caso di disastro) che Miteni riceve nella primavera 2013, quando il ministero dell’Ambiente era già stato avvisato della contaminazione da parte del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr).

Dopo pochi mesi dal suo insediamento arriva quella scheda di produzione e sicurezza del cC6O4 in Miteni, giugno 2010. Dal laboratorio di ricerca interna di Solvay Solexis a Spinetta parte una richiesta di aiuto, gli operai specializzati piemontesi non riescono a lavorare interamente questo sostituto del Pfoa per ottenere il Pfte (teflon di Solvay e primo prodotto della multinazionale, rivenduto in tutto il mondo).

Così Solvay Solexis avvia la sua collaborazione con la Miteni per il cC6O4, restandoci fino al fallimento di quest’ultima nel novembre 2018. Guarracino se ne va prima, nel 2015, e viene sostituito da Antonio Alfiero Nardone, altro imputato nel processo Miteni. La sua uscita coincide con la condanna in primo grado a giugno 2015 nel processo contro Ausimont e Solvay al tribunale di Alessandria. Non era l’unico processo che coinvolgeva Guarracino: in Abruzzo era stato coinvolto nell’inchiesta per avvelenamento delle acque e disastro ambientale insieme ad altri dirigenti della Montedison di Bussi. Assolto e prosciolto per la prescrizione dei reati nel 2014, era stato poi condannato a due anni in appello nel 2017 per disastro ambientale colposo, condanna annullata dalla Cassazione dopo un nuovo calcolo dei termini della prescrizione.

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Il nodo dei rifiuti e l’assenza di autorizzazioni

Quando il maresciallo Manuel Tagliaferri viene spedito a casa Solvay a giugno 2020 perché il cC6O4 è stato trovato nel fiume Po, il direttore Andrea Diotto consegna alla procura tutti i 27 studi tossicologici della sostanza presentati al registro europeo e afferma che la produzione del cC6O4 è svolta soltanto in Piemonte. Quindi l’intera produzione di cC6O4 torna ufficialmente a casa nel 2020, ma i rifiuti della sostanza prodotti da Miteni tra il 2010 e il 2018 dove sono? Dati di Arpa Piemonte del 2019 indicano la presenza della sostanza, sotto brevetto della sola Solvay Solexis, nello scarico del depuratore urbano di Cannobio (Verbano-Cusio-Ossola) che sversa nel lago Maggiore. Il depuratore non ha autorizzazioni a trattare questo tipo di rifiuti.

Miteni nel 2018 ha spedito i rifiuti attraverso i camion cisterna della ditta Getras alla società Nuova Solmine, in provincia di Alessandria. L’Arpa Piemonte ha rilevato nelle acque dello Scrivia decine di nanogrammi di Pfoa per ogni litro di acqua. Oltre ad aver ricevuto i carichi della Miteni, la Nuova Solmine collabora anche con Solvay. Eppure, stando a quanto emergere dai dati pubblici dell’Arpa, non è mai stata studiata la possibile contaminazione di cC6O4 nei paraggi della ditta, che – tra l’altro – non ha l’autorizzazione ambientale per la lavorazione di rifiuti Pfas.

La tracciabilità dei rifiuti deve essere presentata nella richiesta di autorizzazione integrata ambientale da ottenere per intraprendere alcune attività pericolose. Attualmente Solvay Solexis non ha ancora ottenuto questa autorizzazione, che non è stata più discussa dal 27 gennaio 2022 nella Conferenza dei servizi dove istituzioni e ditte si confrontano e redigono l’autorizzazione.

Tutti questi elementi dovrebbero sollevare l’allarme su quanto sta tuttora avvenendo intorno alla Solvay di Spinetta Marengo. Sul merito, la procura di Alessandria – guidata da Enrico Cieri – ha in corso un’indagine sulla mancata bonifica di Solvay Solexis, un fascicolo aperto dopo la condanna definitiva per disastro ambientale colposo, arrivata nel 2019. La scadenza dei termini per le indagini è fissata a fine ottobre 2022. Gli ambientalisti alessandrini – che stasera si riuniranno per la proiezione del documentario Chemical bros di Massimiliano Mazzotta sul caso Pfas in Veneto – temono che la procura non procederà.

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