24 novembre 2022
Insistente, giudicante e diffidente: così le persone africane e gli afrodiscendenti valutano lo sguardo di chi li osserva, primo veicolo di discriminazione e oggetto del dossier Lo sguardo tagliente. Conoscenza, consapevolezza e percezione dell’afrofobia e del razzismo sistemico nei settori della sanità, istruzione e comunicazione, curato dai ricercatori dell’Osservatorio di Pavia Paola Barretta e Giuseppe Milazzo.
L’indagine – realizzata anche grazie al contribuito della scrittrice Kaha Mohammed Aden, Gloria Coscia (Osservatorio di Pavia), Giulia Peruzzi e Sabika Shah Povia (Carta di Roma) – si inserisce nell’ambito del progetto Champs (Champions of human rights and community model countering afro-phobia and stereotypes), sostenuto dall’Unione europea.
Le parole di Lucarelli: colore
Attraverso interviste in profondità e focus group – che hanno coinvolto partecipanti bianchi e africani o afrodiscendenti – la ricerca dimostra come in Italia la strada per smantellare linguaggi e atteggiamenti discriminatori, che possono avere pesanti conseguenze nel vissuto di molte persone, sia ancora in salita. “Abbiamo scelto fra i partecipanti persone che non fossero razziste – racconta a lavialibera la curatrice Paola Barretta – perché l’obiettivo non era quello di evidenziare o rappresentare atteggiamenti, comportamenti o intenti razzisti ma di comprendere come alcune azioni di cui non ci rendiamo neppure conto possano dare adito a discriminazioni o essere una manifestazione anche inconsapevole del razzismo sistemico”.
La ricerca dimostra che in Italia la strada per smantellare linguaggi e atteggiamenti discriminatori è ancora in salita
L’80 per cento degli intervistati pensa che la parola afrofobia – che in Italia non è molto utilizzata – è “fuorviante e limitante”, mentre ben più appropriata, specie se unita a “sistemico” e “istituzionale”, risulta la parola “razzismo”. Eppure, secondo la definizione del dizionario Treccani, l’afrofobia ha un significato preciso, trattandosi di un “atteggiamento di ostilità, paura e intolleranza nei confronti dei continente africano, dei suoi abitanti e delle loro culture”.
“Uno dei risultati più interessanti e in qualche modo inatteso dell’indagine – dice Barretta – è proprio quello sulla consapevolezza rispetto alla presenza dell’afrofobia in Italia”. Che cambia tra gli intervistati: “I partecipanti bianchi – si legge nel rapporto – indugiano sul piano teorico, stigmatizzano certamente i casi eclatanti di violenza razzista ma tendono a non cogliere, non vedere o esplicitamente rifiutare, la diffusività dell’afrofobia e del razzismo, e soprattutto di norma allontanano dal proprio gruppo di appartenenza le responsabilità per la diffusione dell’afrofobia stessa”. I partecipanti neri, al contrario, individuano episodi di razzismo quotidiano.
A scuola, i bambini africani sono “spesso etichettati come più problematici aprioristicamente, rafforzando luoghi comuni e stereotipi”. Barretta cita un caso emblematico: “In una classe di prima elementare, un maestro ha chiesto agli alunni cosa volessero fare da grandi e una bambina nera ha risposto che il suo sogna era diventare bianca. Gli insegnanti bianchi sono rimasti senza parole, loro stessi ci raccontano delle difficoltà nel comprendere qualcosa per cui è necessaria una formazione specifica”. Nel rapporto emerge come la scuola italiana tenda a dipingersi un'isola felice, impermeabile a episodi di razzismo e afrofobia. Secondo Barretta serve, invece, “lavorare affinché dei percorsi di consapevolezza possano essere maggiormente diffusi e presenti”.
I pregiudizi si manifestano anche tra le corsie degli ospedali: “Durante un focus group – spiega la ricercatrice– un medico bianco ha raccontato che incontrando le prime volte in reparto medici neri, gli venisse quasi automatico chiedersi che tipo di professionalità avessero quei colleghi, essendo lui abituato a vedere le persone nere in altri contesti. In alcuni casi riconoscere pregiudizi e stereotipi è già un ottimo primo passo, quello successivo è definire le cose nel modo più corretto possibile”.
un medico bianco ha raccontato che incontrando in reparto medici neri, gli venisse quasi automatico chiedersi che tipo di professionalità avessero quei colleghi
Il report dimostra come “sfiducia” e “scarsa professionalità dei neri” si trovino spesso fra pazienti e colleghi. Inziali pregiudizi espressi in sguardi di diffidenza e sorpresa verso personale nero – indizi di cosiddetti bias razziali impliciti – si troverebbero non solo negli ospedali, ma anche nelle farmacie. Inoltre, i pazienti africani o afrodiscendenti sarebbero spesso oggetto da parte dei medici di “pregiudizi clinici”, tanto da essere incasellati “in specifici range diagnostici”.
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Il terzo campo di indagine è quello della comunicazione: africani e afrodiscendenti in molti casi sono “inseriti nelle cornici della criminalità, da un lato, o del pietismo e vittimismo dall’altro, contribuendo a plasmare una percezione distorta dei fenomeni e della società stessa”. Per un cambio di marcia, servirebbe valorizzare le competenze comunicative di professionisti africani e afrodiscendenti: “È un dato di fatto che nell’informazione, soprattutto in quella mainstream, – sottolinea Barretta – la rappresentazione di un’Italia plurale, quindi anche di volti afrodiscendenti tra chi conduce un telegiornale o nei programmi di infotainment, è molto bassa. Tutto questo ha un impatto sull’opinione e sulla rilevanza agli occhi dei telespettatori e quindi dei cittadini”. Fra i punti critici sono emersi, inoltre, termini non sempre appropriati per riferirsi a migranti; stereotipi presenti nei titoli e la tendenza a evitare di utilizzare immagini di uomini africani, salvo in notizie che li vedono inquadrati in chiave negativa.
Nell’informazione, soprattutto mainstream, la presenza di volti afrodiscendenti tra chi conduce un telegiornale o nei programmi di infotainment è molto bassa
“I partecipanti neri di tutti i focus group – si legge nel report – concordano sul problema di essere qualificati costantemente come ‘stranieri’, solo perché di pelle scura, indipendentemente dalla cittadinanza”. La questione della cittadinanza, difficile da ottenere in Italia, contribuisce ad alimentare i pregiudizi: “Quella che era stata annunciata come una legge sulla cittadinanza – commenta Barretta - è ancora in fase di approvazione. L’assenza di percorsi che vadano in quella direzione e la conseguente difficoltà di accedere anche ai settori oggetto della ricerca, istruzione e sanità, rendono complessi i meccanismi di inclusione”. Anche l’uso frequente della parola “integrazione” risulta improprio se riferito ad afroitaliani, nati in Italia o con passaporto italiano.
Fra i temi emersi nei focus group, infine, ci sono “l’iper-sessualizzazione del corpo femminile, la paura, e la rimozione del passato coloniale”. Africani e afrodiscendenti sostengono che negli ultimi anni vi sia stato “un inasprimento delle forme di razzismo e in particolare di afrofobia”. Si guarda con preoccupazione al tema della iper-sessualizzazione dei corpi femminili delle donne nere, mentre “Il tema della rimozione del passato coloniale ha assunto un grande rilievo nel confronto tra insegnanti ed educatori neri, che vedono nella questione la matrice dell’afrofobia e dei discorsi discriminanti”.
Tutti i partecipanti sono convinti che sarebbe utile “proporre percorsi di formazione interculturale e sul razzismo all’interno dei diversi settori lavorativi”. Il che significa: formazione all’intercultura e all’antirazzismo di docenti, educatori e allievi delle scuole di vario grado; corsi per i professionisti della sanità, riscoperta di un legame più “umano” con il paziente e l’utilizzo di una lingua franca per favorire la comunicazione medico-paziente; formazione ad hoc riservata a giornalisti e professionisti della comunicazione, per un utilizzo corretto del linguaggio, specie in tema di migrazione, nonché l’applicazione delle norme indicate dalla Carta di Roma e la valorizzazione di professionisti africani e afrodiscendenti nel settore della comunicazione.
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