Marzo 2017. Attivisti di Greenpeace protestano a Venezia contro l'inquinamento da Pfas/Ansa
Marzo 2017. Attivisti di Greenpeace protestano a Venezia contro l'inquinamento da Pfas/Ansa

Pfas, i consulenti ambientali: "Miteni chiese di distruggere le prove della contaminazione"

I tecnici della società Erm hanno spiegato al tribunale di Vicenza che i vertici dell'azienda chimica Miteni erano a conoscenza della contaminazione da Pfas nella falda, ma chiesero di stralciare le analisi sulle sostanze inquinanti

Laura Fazzini

Laura FazziniGiornalista

2 dicembre 2022

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“Ci chiesero di distruggere i risultati delle analisi sulla presenza di Pfoa nell’acqua di falda”. Così Roberto Ferrari, geologo della società di consulenza ambientale Erm, che ha testimoniato al processo sul più grave inquinamento da Pfas (sostanze perfluoro alchiliche) in Europa, in corso al tribunale di VicenzaGli imputati sono 15 manager accusati a vario titolo di avvelenamento acque, disastro ambientale innominato, gestione di rifiuti non autorizzata, inquinamento ambientale e reati fallimentari.

Dal racconto è emerso che i vertici dell’azienda chimica Miteni erano a conoscenza della contaminazione da acido perfluoroottanoico, ma invece di intervenire e adoperarsi per la bonifica della falda acquifera cercarono di insabbiare le prove. Dopo due anni di udienze, per la prima volta è possibile ipotizzare l’eventuale dolo dei dirigenti della società fallita nel 2018, che aveva sede a Trissino, in provincia di Vicenza. “Il direttore tecnico Mario Fabris – ha aggiunto Ferrari – chiamò al telefono il mio responsabile, Giuseppe Filauro, per chiedergli di togliere dall’ultima versione del nostro report i dati sul Pfoa. Era necessario edulcorare gli allarmi che avevo inserito nel lavoro sulla falda”.

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Inquinamento oltre i limiti

Nel 2008 a Ferrari fu affidato il compito di studiare la possibile contaminazione delle acque che scorrono sotto lo stabilimento e, in particolare, scoprire se i prodotti chimici della Miteni stavano davvero inquinando la falda. “Chiedemmo all’azienda di analizzare i Pfas prodotti, all’epoca non esisteva alcun dato sulla falda”, ha detto Ferrari rivolgendosi al pm. E ancora: “Conoscevo queste sostanze perché avevo seguito lo scandalo americano della Dupont, ma non le avevo mai studiate. Ci rivolgemmo quindi a un laboratorio esterno ed esperto in materia, il Theolab di Volpiano, in provincia di Torino, che impiegò dei mesi per fornire i risultati. I dirigenti della Mitsubishi, proprietari di Miteni, ci assillavano per avere le analisi ma i dirigenti locali, quelli italiani, non collaboravano con Theolab”.

Il consulente ambientale Ferrari: "Nel 2008 avevo il compito di studiare la possibile contaminazione delle acque che scorrono sotto lo stabilimento, all’epoca non esisteva alcun dato sulla falda”

Il laboratorio piemontese, che dalla metà degli anni Duemila aveva iniziato ad analizzare il Pfoa per conto della multinazionale Solvay Solexis, non era in possesso degli standard per studiare i Pfas prodotti da Miteni. “Theolab si rivolse agli Stati Uniti e finalmente ottenemmo gli esiti, che furono eclatanti”. Il responso non lasciava alcun dubbio: nell’acqua profonda vi erano centinaia di microgrammi di Pfoa. “Visto che in Italia queste sostanze non sono normate, si decise di utilizzare i limiti americani, ossia 0,5 microgrammi per litro, in modo tale da avere un riferimento concreto. I risultati di Miteni superavano quei limiti di 400 volte”.

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“Non è possibile, ripetete le analisi e fate un confronto”, chiese il direttore dello stabilimento, Mario Fabris, una volta venuto a conoscenza dei dati. “Nessuno si aspettava quei risultati – ha testimoniato Ferrari – la contaminazione c’era e bisognava fare qualcosa”. Il responso fu inserito nel rapporto che la Erm doveva completare per procedere alla vendita dello stabilimento da parte di Mitsubishi. La multinazionale giapponese, proprietaria dal 1998 dell’azienda, aveva infatti deciso di cedere il sito dopo due anni di cassa integrazione e il proliferare di allarmi internazionali sulle sostanze perfluorurate. Dagli Stati Uniti arrivavano i primi dati sanitari sui danni causati da questi composti indistruttibili, considerati interferenti endocrini. “Quando consegnai l’ultima versione delle analisi ai giapponesi il mio responsabile, Giuseppe Filauro, mi urlò contro nel corridoio ‘come ti sei permesso, dovevi aspettare, dovevo farlo io’”. Ferrari aveva firmato il dossier, già spedito cinque volte in sei mesi ai proprietari giapponesi, ma l’ultima versione non doveva lasciare la Erm senza l'assenso di Filauro. “Ci fu una telefonata tra lo stesso Filauro e Fabris in cui il direttore Miteni chiedeva di eliminare sia i dati sul Pfoa sia la nostra raccomandazione di implementare il sistema di filtraggio sotterraneo per evitare la contaminazione”. Mario Fabris, direttore tecnico di Miteni, avrebbe quindi cercato di nascondere i dati sull’inquinamento.

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In gergo tecnico, il sistema di filtraggio sotterraneo si chiama barriera idraulica e solitamente viene utilizzato quando un sito chimico presenta delle perdite sotto il terreno. L’ingegnere ambientale Lorenzo Sacchetti, già consulente tecnico per Erm, nel 2004 fu chiamato a sovrintendere alla posa di tre pozzi a valle dello stabilimento. Al processo vicentino ha testimoniato anche lui. “Nell’ottobre del 2004 incontrammo i dirigenti Miteni e per la prima volta sentimmo parlare dei Pfas. Quando dall’azienda ci spiegarono in cosa consisteva la loro produzione, capimmo che il Pfoa era il prodotto di punta”. La Miteni aveva iniziato a produrre il composto nel 1967, quando ancora si chiamava Rimar ed era di proprietà della famiglia Marzotto, la famosa casa di moda. Sacchetti impiegò tre mesi per costruire il sistema di filtraggio, utile anche a riutilizzare l’acqua di falda per la lavorazione dei prodotti. “L’obiettivo – ha ricordato l’ingegnere – era bloccare la contaminazione, evitare che fuoriuscisse dal terreno della fabbrica. Di queste sostanze, però, non si sapeva nulla, non esisteva neppure una metodologia per cercarle nei campioni”.

Miteni aveva iniziato a produrre Pfas nel 1967, quando si chiamava Rimar e apparteneva ancora alla famiglia Marzotto, la nota casa di moda

Il lavoro terminò e due anni dopo, nel 2007, nello stabilimento arrivò Marco Brevi, che per conto di Erm doveva valutare se la ditta stava eseguendo o meno le modifiche necessarie per conformarsi alla legge. “Dai dati ci rendemmo conto che mancava un pozzo per accertare che la barriera stesse effettivamente bloccando quelle sostanze. Insomma, non c’era un modo per prelevare acqua e capire se fosse pulita”, ha spiegato Brevi, che nel 2007 chiuse il report con la raccomandazione di aumentare i controlli e, soprattutto, di verificare se i Pfas venivano trattenuti dai pozzi del 2005. “Non ricevemmo alcuna risposta dalla Miteni, siamo consulenti dei clienti ma poi sta a loro eseguire le nostre raccomandazioni”. 

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Omissione di dati

Nel 2007 Miteni fu avvertita che la struttura di filtraggio, costata diverse centinaia di migliaia di euro, non era sufficiente per contenere l’inquinamento. Il geologo Michele Remonti, che per sei mesi fu incaricato da Erm di verificare la falda, ha spiegato: “Da gennaio a giugno 2009 ho studiato il problema, ma non avevamo dati sufficienti. L’acqua di falda si muove costantemente, se non la segui non capisci dove stanno andando le sostanze che ci sono dentro”. 
Dal 2004 al 2009 Erm seguì periodicamente la ditta Miteni, sempre sulla contaminazione della falda. “I risultati forniti dal laboratorio Theolab non bastavano – ha aggiunto Remonti – sotto Miteni la falda è grande, servono diversi punti dai quali prelevare l’acqua e questo l’ho scritto e detto”. Alla richiesta di Remonti il direttore Fabris risponde che i dati di Theolab sono sbagliati e non si devono prendere in considerazione. “Mi dissero di togliere dal mio studio sulla falda i dati del Pfoa perché non attendibili, non si doveva accennare a questa sostanza”, ha concluso il geologo, pagato sei mesi per cercare un composto che non doveva esistere. 

Il geologo Remonti: “Mi dissero di togliere dal mio studio sulla falda i dati del Pfoa perché non attendibili, non si doveva accennare a questa sostanza”

“La nostra strumentazione non può sbagliare, seguiamo le linee internazionali e se sbagliamo un’analisi ce ne accorgiamo subito”, ha spiegato Alessio Mattiazzo, tecnico del laboratorio Chelab, ex Theolab, che dal 2010 al 2018, ogni settimana, ha analizzato la falda dell’azienda chimica vicentinai. “Spesso Miteni ci chiedeva di rianalizzare lo stesso campione, dicevano che i risultati erano troppo elevati. Ma la seconda analisi era sempre uguale alla precedente”. Matiazzo ha confermato che il Pfoa trovato nell’acqua di falda era di centinaia di microgrammi. “Numeri enormi, io stesso all’inizio ero stranito. Nessuno di noi conosceva questi composti prima dell’arrivo di Miteni”. 

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Ma come è possibile che nel 2010, a distanza di cinque anni dalla posa della barriera idraulica, ci fossero ancora centinaia di microgrammi di Pfoa? Maddalena Bonizzoni, che nel 2007 per Erm seguì due giorni di intense verifiche sul sito, ha provato a rispondere in aula a questa domanda. “Spiegai a Fabris che si doveva implementare la barriera, ma sopratutto costruire un pozzo di verifica. Come si fa altrimenti a capire se la contaminazione si sta estendendo? A fine udienza, il magistrato è tornato a rivolgersi a Ferrari: “Nelle sue raccomandazioni aveva invitato la ditta ad autodenunciarsi?”, con il tecnico che ha risposto senza esitare: “Certo, si deve”.

Prima di essere redarguito dal suo superiore Filauro, il geologo di Erm aveva in effetti avvertito Mitsubishi che i rilievi sul Pfoa andavano comunicati con urgenza agli enti. “Dalla società ci dissero di escludere i dati del pozzo più contaminato e non segnalare l’autodenuncia. Lo chiesero sia per il report interno sia per il documento da presentare per la vendita”, ha spiegato Ferrari, che pochi mesi dopo lascerà Erm anche per questi contrasti. A fine 2009 Mitsubishi cedette Miteni alla multinazionale Icig per la cifra simbolica di 1 euro. 

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