22 dicembre 2022
Campare la famiglia. Anzi, le famiglie. Mentre si consolida la zona grigia delle mafie, con ingerenze e business in settori legali e pubblici, questa rimane la motivazione principale per cui Cosa nostra in Sicilia non abbandona un’attività tradizionale: la richiesta del pizzo. Più rischiosa e meno redditizia di un grande appalto, ma con due obiettivi ancora preziosi: liquidità immediata per sfamare i parenti dei detenuti e controllo del territorio. Così tradizionale da non fare quasi più notizia, eppure non c’è operazione antimafia sull’Isola che non riporti tra la lista dei reati contestati proprio l’estorsione. La richiesta dei clan a commercianti e imprenditori negli anni si è adeguata ai tempi, pur rimanendo uguale a se stessa.
La pandemia è riuscita a intaccare il modus operandi di Cosa nostra. "In un periodo di vacche grasse, la distinzione tra gli affari dell’associazione mafiosa e quelli del singolo uomo d’onore non comporta particolari conseguenze – scriveva nella relazione della Direzione investigativa antimafia (Dia) del secondo semestre 2020 il procuratore Francesco Lo Voi – ma attualmente le casse di molte famiglie e mandamenti mafiosi, di regola foraggiate per lo più con i proventi delle estorsioni, sono in sofferenza. Da ciò potrebbe conseguire una crescente difficoltà economica".
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A fronte di minori entrate, Cosa nostra ha “aiutato” esercenti e imprenditori in difficoltà, attraverso i soliti prestiti a tassi da usura o con azioni plateali come quella del capomafia palermitano Giuseppe Cusimano, diventato punto di riferimento per le famiglie indigenti del quartiere Zen dopo avere distribuito alimenti durante i primi mesi di chiusura forzata. Nell’ambito del cosiddetto welfare mafioso, la criminalità organizzata ha dimostrato paziente attesa – ma sarebbe stato difficile comportarsi diversamente – anche nel pagamento del pizzo. "Qua ci siamo dovuti fermare per questo corna virus…", raccontava il gestore di un’attività al suo estortore, che nell’occasione si dimostra particolarmente comprensivo: "Lo so, lo so… La gente sta impazzendo. Purtroppo lo Stato italiano non è buono... Nello Stato italiano non va niente".
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Nei primi dieci mesi del 2021, a Palermo, i casi di racket sono stati 220. I carabinieri ne hanno seguiti circa la metà, ricevendo solo sette denunce
Nei primi dieci mesi del 2021, a Palermo, i casi di racket accertati sono stati 220. Circa la metà seguiti dai carabinieri del capoluogo siciliano, che però hanno ricevuto solo sette denunce. "Poco rilevanti da un punto di vista quantitativo, ma di sicuro impatto da un punto di vista qualitativo – scriveva ancora Lo Voi –. Peraltro sono sempre più numerosi gli imprenditori che oppongono resistenza passiva e, pur non denunciando, tentano di non pagare la messa a posto". Come un ristoratore di Palermo, costretto a non servire carne nel proprio locale e a far mangiare gratis i componenti del clan e i loro ospiti finché non si fosse deciso a rifornirsi dalla loro macelleria o a pagare il pizzo. Una forma di mediazione.
Di contro, cresce la quantità di commercianti e imprenditori che fanno il primo passo, chiedendo di pagare quando ancora non è richiesto. Un fenomeno diventato addirittura preponderante rispetto a chi cede sotto minaccia, secondo la storica associazione palermitana Addiopizzo: "La maggior parte di chi paga lo fa perché instaura relazioni di connivenza con Cosa nostra – spiega Daniele Marannano, presidente e fondatore del movimento antimafia –. Commercianti e imprenditori che in cambio del pizzo chiedono servizi alla criminalità organizzata, come scalzare i concorrenti o recuperare crediti fra i propri clienti, dirimere vertenze con i dipendenti e risolvere problemi di vicinato. C'è chi paga e non denuncia perché appartiene a Cosa nostra o perché il pizzo lo corrisponde senza remore al proprio cugino o genero, che è l'estorsore del rione. È illusorio aspettarsi collaborazioni e risulta fuorviante non interrogarsi sui profili di chi paga. C’è l'esigenza di ridefinire l'analisi e la narrazione, anche per adottare nuovi strumenti amministrativi utili a rendere sconvenienti queste relazioni di connivenza". Con variegate sfumature di grigio, come quella di un gioielliere catanese che consentiva a un capo clan compravendite in contanti di diamanti, orologi e gioielli senza alcun documento fiscale, permettendogli così, a fronte del proprio guadagno, di riciclare soldi sporchi. "Una società di fatto con dazione reciproca del denaro da attività lecite e illecite", scrivono gli investigatori.
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“Spesso le prime richieste non sono aggressive, si chiede un contributo di solidarietà per le famiglie dei detenuti o una garbata offerta di protezione”Alessandro Sciacca - Commissario di polizia a Lentini (Sr)
"Fin da quando studiavo giurisprudenza – spiega Alessandro Sciacca, commissario di polizia a Lentini, in provincia di Siracusa – esiste la differenza tra l’imprenditore vittima e l’imprenditore complice. Il pizzo non è solo un fenomeno criminale e reprimerlo non può bastare. Serve un processo culturale. Per snaturare la percezione del racket come normale rischio d’impresa – continua il poliziotto – a volte si cerca la protezione prima ancora di aprire l’azienda, senza capire che con le estorsioni Cosa nostra entra nel cuore delle attività economiche". Negli anni, non sembrano cambiate neppure le modalità di aggancio della vittima. "Spesso le prime richieste non sono aggressive – racconta il commissario –. Si chiede un contributo di solidarietà per le famiglie dei detenuti o una garbata offerta di protezione. In questa fase può intervenire anche la figura dell’intermediario, il buono, l’amico che promette di convincere l’organizzazione mafiosa a prendere una somma più piccola ma che ovviamente è loro complice". A quel punto scatta la richiesta vera e propria: non solo denaro, ma anche la pretesa di beni e servizi gratuiti o l’imposizione degli stessi.
Fino a raggiungere sfumature grottesche: dalla scelta obbligata dei cantanti neomelodici da far esibire a Palermo durante le manifestazioni in onore di Madre Sant’Anna, patrona del quartiere Borgo Vecchio, alle ceste natalizie ordinate dal carcere dal boss catanese Giuseppe Zucchero. Una decina a titolo di pizzo, "per monetizzare vendendole o per omaggiare i responsabili del gruppo mafioso del quartiere Civita, per rinforzare i legami tra i due sodalizi mafiosi", si legge negli atti degli inquirenti. Un “gentile pensiero” non sempre alternativo alla richiesta di denaro. Come accaduto sempre in provincia di Catania, a Paternò, dove le donne di un gruppo affiliato alla famiglia mafiosa Santapaola-Ercolano, trovandosi a gestire il giro di estorsioni per indisponibilità degli uomini, tutti in carcere, pretendevano costosi regali sotto Pasqua o Natale: dalle casse di champagne ai dolci. "I generi alimentari che mi venivano richiesti per le festività erano di qualità e quantità tale da avere un valore superiore, di fatto, all’importo dell’estorsione che pagavo", ha raccontato la vittima ai magistrati.
Le somme di denaro richieste variano in base al fatturato dell’imprenditore e all’eventuale convenienza reciproca. "Dai racconti dei commercianti, registriamo che oggi viene chiesta una cifra inferiore ma in più momenti rispetto alla tradizionale richiesta mensile – spiega Nicola Grassi, presidente di Asaec, associazione antiestorsione di Catania –. All’inizio si pretendono 300-500 euro, a cui si aggiunge una seconda richiesta per le feste, Natale, Pasqua e Ferragosto. Poi avanti senza una precisa periodicità, in base al principio che meno ci si fa vedere e meno rischi si corrono". Una prassi adeguata ai tempi, ma che non si applica alle vittime storiche, come racconta l’indagine Sangue blu: tra le estorsioni, anche quella al titolare di un negozio di giocattoli di Misterbianco, nel Catanese, durata più di trent’anni. "Intorno al 1989-1990, dopo aver subìto una rapina, si presentò una persona e mi disse che avrei dovuto sistemarmi pagando una quota annuale", racconta il giocattolaio. Due milioni di vecchie lire diventate poi duemila euro all’anno, sempre nello stesso periodo: i primi giorni di novembre, dopo le festività di tutti i Santi e della commemorazione dei defunti. La festa dei morti, sentita in Sicilia come e più del Natale, con il tradizionale giocattolo da regalare ai bambini come pensiero da parte di chi non c’è più. Come in questo caso, spesso "l’azione investigativa si scontra con l’atteggiamento poco collaborativo delle vittime, sempre meno inclini alla denuncia – scrivono gli investigatori della Dia –. Ne deriva un trend di apparente diminuzione, sebbene non accennino a diminuire i danneggiamenti".
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Solo nel primo semestre del 2020, in provincia di Caltanissetta, territorio a scarsa vocazione imprenditoriale, si sono registrati 334 episodi, di cui 43 con incendio. Triste primato quello di Gela, dove sono state accese più della metà delle fiamme dell’intera provincia. Primo sintomo delle richieste di pizzo. "Il fenomeno del racket è di scarsa visibilità – conferma il commissario Sciacca –. Le denunce sono poche perché la gente ha paura e per il particolare rapporto che si crea tra la vittima e l’estortore. Noi, per farci un’idea e indagare dobbiamo affidarci a dei segnali indice, piccoli danneggiamenti, serrature bloccate, voci di popolo e il prezioso impulso dell’associazionismo". Tanti gruppi che lavorano su due fronti: la sensibilizzazione e l’affiancamento a chi decide di denunciare, per affrontare il lungo percorso in tribunale e quello burocratico per ottenere i ristori previsti dalla legge. "Le poche denunce che riceviamo nascono dalla vastità del fenomeno – spiega Grassi –. Noi di Asaec ne raccogliamo due o tre all’anno, forse prima della pandemia qualcosa in più". Numeri che tendono allo zero rispetto all’ampiezza del fenomeno, ma che diventano ancora più piccoli nelle zone a vocazione agricola.
Probabilmente è fallito il metodo messo in campo dalle associazioni. Di sicuro, serve più sensibilità da parte delle istituzioniNicola Grassi - Presidente di Aesec, associazione antiestorsione di Catania
Riguardo ai contributi regionali destinati alle associazioni antiestorsione, per evitare che si trasformino per alcuni in un’opportunità di carriera o facili guadagni, sono stati resi più stringenti i parametri per il loro ottenimento (ad esempio, non si possono percepire contributi da altri enti locali e almeno la metà dei soci devono essere imprenditori o commercianti vittime di pizzo). Criteri che si aggiungono a quelli necessari per l’iscrizione nelle liste delle prefetture – passaggio fondamentale per supportare i denuncianti nell’iter burocratico che porta al risarcimento – tra cui almeno una costituzione di parte civile nei processi a fianco di una vittima ogni due anni. "Solo che al numero delle associazioni iscritte all’albo non corrisponde una effettiva capacità di intervenire in maniera efficace sul territorio – ammette Grassi –. Probabilmente è fallito il metodo messo in campo dalle associazioni e ci stiamo interrogando per capire se quel modello sia ancora valido. Di sicuro, serve più sensibilità da parte delle istituzioni, mentre in Sicilia non esiste nemmeno un tavolo permanente sul racket, né al livello prefettizio né comunale, per far conoscere gli strumenti a favore delle vittime". Argomento su cui grava più di un pregiudizio e non tutti sono infondati. "Gli imprenditori vittime di pizzo spesso non hanno fiducia nelle capacità degli investigatori, che invece sono efficaci. Si è velocizzato l’iter per i risarcimenti messi a disposizione dal fondo nazionale per le vittime di racket e usura, che adesso arrivano, in media, dopo circa un anno dal rinvio a giudizio degli estortori. Mentre il dubbio sulla celere risposta della giustizia rimane fondato, perché la certezza e la velocità della pena sono ancora vacillanti".
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Nel 2007 Confindustria annunciò una linea dura che prevedeva l’espulsione per gli iscritti collusi e la possibilità di redenzione per chi sceglieva di denunciare. Nei cinque anni successivi, la misura colpì una trentina di imprenditori siciliani, poi non se ne seppe più nulla. "Solo perché non abbiamo più avuto elementi per affermare che qualcuno ha davvero pagato il pizzo", spiega il presidente di Confindustria Sicilia Alessandro Albanese, che non nega la vastità del fenomeno, semmai ne sottolinea la complessità. "Se guardiamo a Palermo – aggiunge – esistono zone dove il pagamento è diffuso a tappeto tra i piccoli e piccolissimi esercenti. I nostri associati sono medi e grandi imprenditori, con i quali negli anni è stato fatto un lavoro, specie nelle aree industriali, mirato a far comprendere loro come al giorno d’oggi pagare non sia più necessario, ma diventa un atto volontario. Chi continuava a farlo o era stupido, e allora non poteva fare l’imprenditore, oppure era colluso e in cerca di scorciatoie".
Una categoria, quest’ultima, che non è certamente scomparsa. "Penso a certi marchi in franchising, che hanno affidato dei lavori di ristrutturazione ad aziende colluse o utilizzate dalla mafia. Chi arriva in una nuova città e vuole capire come funzionano le cose può percorrere due strade: quella legale è fatta di interlocuzioni con il sindaco, incontri con la camera di commercio e le associazioni di categoria; la via alternativa è rappresentata dalla mafia, che offre scorciatoie per le autorizzazioni. Dopo gli scandali che ci hanno investito in passato, preferiamo non creare strutture apposite sulla legalità o fare proclami. Nessuna passerella e nessuna possibilità di indossare la veste di paladini. Quando un nuovo aderente presenta domanda – dice Albanese – facciamo innanzitutto un controllo cartaceo, che però è superabile servendosi di un prestanome. Si apre quindi una discussione interna ai direttivi locali, dove con il passaparola cerchiamo di recuperare informazioni e capire chi può accedere e chi invece no. In passato ci sono stati dei casi dubbi e abbiamo preferito declinare. D’altronde siamo una libera associazione e possiamo scegliere".
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