Marco Aime, autore insieme a Davide Papotti del libro Confini. Realtà e invenzioni.
Marco Aime, autore insieme a Davide Papotti del libro Confini. Realtà e invenzioni.

L'antropologo Aime: "Siamo stati emigrati, possiamo capire chi migra oggi"

Nel libro "Confini. Realtà e invenzioni", Marco Aime e Davide Papotti spiegano cos'è un confine, quanti tipi ne esistono, perché dividono e a volte spaventano. "Possiamo mantenere la nostra identità, senza per forza negare quella degli altri o considerarla avversa a noi"

Francesca Rascazzo

Francesca RascazzoEditor per Edizioni Gruppo Abele

7 aprile 2023

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Pensarci come individui e come società nello spazio e nel tempo ci mette in relazione con il tema del confine. Un argomento al quale Marco Aime e Davide Papotti hanno dedicato il libro Confini. Realtà e invenzioni, Edizioni Gruppo Abele. Una sorta di catalogo sui molti tipi di confine che attraversano l’esperienza umana, siano essi geografici o simbolici, naturali o culturali. 

Che origine ha l’idea di confine come limite, separazione? E a partire da quali domande nasce il testo? 

È bene iniziare con una piccola precisazione, perché spesso si confonde il confine con la frontiera. Il confine, dal latino cum finis, è una linea netta che separa due spazi che hanno qualche cosa di diverso tra loro, o almeno chi li abita crede che sia così. La frontiera, invece, è uno spazio libero, una sorta di terra di nessuno, un interstizio tra due realtà, qualcosa che sta tra il già e il non ancora, in cui due vere o presunte diversità sfumano un po’ l’una nell’altra. Spesso i due termini sono usati come sinonimi, ma è importante sapere che c’è una differenza. L’idea di confine ha anche avuto evoluzioni storiche. Per qualche decennio, e in particolare nell’immediato Dopoguerra, ci eravamo un illusi circa la possibilità di un mondo o almeno di un’Europa senza confini. Per certi versi, in parte, è accaduto, se pensiamo all’abbattimento delle frontiere dal punto di vista commerciale. Tuttavia, ci accorgiamo di vivere in un’epoca dove i confini a volte diventano muri. Se, da un lato, le merci circolano liberamente, dall’altro gli individui incontrano molte più barriere, non necessariamente fisiche, anche giuridiche, culturali, religiose etc. 

Se, da un lato, le merci circolano liberamente, dall’altro gli individui incontrano molte più barriere

Nel libro citate molti tipi di confine, che afferiscono a quella che è ed è stata in passato la rappresentazione che gli individui hanno dovuto dare di se stessi e delle proprie società.

È esatto, ogni società umana, dalla più piccola alla più grande per auto definirsi ha bisogno di darsi un confine, un limite. Deve decidere dove finire e dove invece iniziano “gli altri”, o i presunti tali. Poi ci sono confini non necessariamente politico-territoriali, con i quali abbiamo forse un po’ più familiarità. Esistono confini linguistici, confini di carattere religioso e culturali, come quello tra noi e la natura. Soprattutto il pensiero occidentale, che ha una forte tendenza classificatoria, tende a porre dei limiti e delle differenze, nonché a negoziare tra queste. Pensiamo al dibattito tra natura e cultura, un confine che è stato più volte ridisegnato, ammorbidito, duramente tracciato. Potremmo fare molti esempi di barriere culturali: i confini di classe o quelli di genere, per citare un tema attuale.

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Il confine dato dalla natura sembra essere in qualche modo indiscutibile, mentre quello costruito dall’uomo appare più mutevole e arbitrario. È così?

Cerchiamo di sfatare anche questo mito del confine naturale. Non attribuiamo alla natura colpe che non ha! Spesso è successo, anche per comodità, di far coincidere la scelta di una linea di confine con un elemento naturale, ad esempio il corso di un fiume o la cresta di una montagna. Una scelta di semplicità, ma né le montagne né i fiumi hanno mai impedito il passaggio ad alcuno: la gente che voleva attraversare questi luoghi lo ha sempre fatto, e sarà sempre così. Ci sono poi dei confini che possono essere anche temporanei. Per chi segue una partita di calcio allo stadio, il confine che lo divide dall’avversario, che può anche essere un suo amico, è l’appartenenza a una tifoseria piuttosto che a un’altra. Alla fine della partita quel confine decade. Tornando ai confini geografici o politici, dopo la Seconda guerra mondiale qualcuno parlò persino di “fine della storia”. Finiva l’epoca – o almeno così si credeva – delle guerre per la conquista dei confini, ma ciò non avvenne. Soltanto in Europa, non esiste più l’Unione sovietica, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia, la Germania è una sola.

Confini che sembrano intangibili in realtà sono sempre frutto di scelte e come tali possono cambiare a seconda degli umori della storia e delle evenienze.

Forse è rassicurante l’idea di un confine all’interno del quale, soprattutto negli ultimi decenni, ci si è rifugiati come elemento certo e distintivo di una qualche identità nazionale. È accaduto in Italia, come altrove in Europa.

Il tema dell’identità non a caso nasce con il crollo del Muro di Berlino, che segna la fine dell’epoca delle cosiddette “grandi narrazioni”, e cioè quelle ideologie novecentesche frutto di una scelta politica. È in questo vuoto ideologico che si sono spesso insinuate istanze di tipo localistico. Ed ecco la metafora delle radici, dell’essere legati al luogo, per cui tutto il discorso si è spostato dal piano della cultura a quello della natura. Io non ho scelto dove nascere, nessuno di noi può, mentre invece è possibile decidere quali idee seguire. Se ho bisogno di fondare la mia esistenza su radici indiscutibili è molto più semplice appellarsi al dato naturale piuttosto che a quello culturale. Abbiamo assistito a un’ondata identitaria che è una sorta di neo-tribalismo. Si sposta il confine e si attribuiscono o meno dei diritti in virtù del luogo di nascita che, ripeto, non è una scelta dell’individuo.

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Il fascino del confine si esprime anche quando questo diviene un luogo da visitare, come successo con il Muro di Berlino. Perché le persone sono attratte dai luoghi di confine, tanto da sceglierli come mete di viaggio?

In qualche modo, il confine offre una tangibilità della storia, ma anche del presente.  Abbiamo un limite, non riusciamo a pensarci sempre parte di tutta l’umanità, ma solo di un certo gruppo, di una certa nazione, di una certa storia, vera o falsa che sia, e tutto questo può trovare sintesi in qualche luogo particolarmente significativo. Il Muro di Berlino, almeno per l’Europa contemporanea, rappresenta questo luogo.

Non riusciamo a pensarci sempre parte di tutta l’umanità, ma solo di un certo gruppo, di una certa nazione o di una certa storia

Ma pensiamo anche alla Grande Muraglia cinese o ad altri luoghi di confine che sono diventati quasi simbolici. Come Santa Maria di Leuca, dove si incontrano i mari Adriatico e Jonio: l’idea che ci sia questo luogo simbolo e il fatto che lo si veda lì, davvero, ci dà un riferimento e forse anche una sicurezza della quale abbiamo un po’ bisogno. Il confine può anche avere il fascino della paura, perché al di là c’è qualcosa di diverso dal nostro mondo, altrimenti non sarebbe un confine. Certo, in tutto questo può esserci della suggestione, ma il turismo attinge molto all’immaginazione e all’immaginario. E quindi il confine come esperienza diventa attrattivo, anche nel senso di spaesamento e incertezza che può trasmettere. Cosa ci sarà al di là? Magari lo sappiamo, però ci piace pensare che siamo arrivati alla fine di qualcosa, e che qualcos’altro inizi.

Tra i luoghi con una forte valenza simbolica rientrano anche quelli che rappresentano il confine tra bene e male, alcuni diventati mete turistiche.

Pensiamo ad Auschwitz o ad altri posti dove sono avvenuti fatti terribili. Visitarli significa sentirsi un po’ partecipi rispetto agli eventi che vi sono avvenuti, ma serve anche a non farci dimenticare che certe cose, come diceva Primo Levi, sono accadute e possono ancora accadere.

Un capitolo molto interessante del libro è dedicato al cibo. Pensiamo a cosa sta accadendo sull’introduzione della farina di grillo in alcuni alimenti, o al discusso tema delle carni coltivate. Perché ci indigniamo di fronte ai cambiamenti sulle scelte alimentari?

Siamo non solo consumatori di cibo, ma anche consumatori culturali. Come umani potremmo mangiare tutto ciò che è commestibile, ma quasi nessuno lo fa. Tradizionalmente non mangiamo insetti e quindi l’idea che questo si possa fare suscita difficoltà. In realtà, nell’Antica Grecia Platone elogiava le locuste e le cavallette, ed è piuttosto difficile dare del selvaggio a Platone. Ci sono poi dei confini di tipo religioso: i musulmani non mangiano il suino, gli induisti non mangiano la carne bovina, altri sono vegetariani. I confini alimentari diventano identitari, tant’è vero che spesso, anche solo per scherzo, noi italiani veniamo chiamati “macaroni”. I francesi dicono che i belgi mangiano solo patate, mentre gli inglesi dicono che i francesi mangiano le rane. Nel cibo spesso ci si identifica, in Italia soprattutto. Ci sono poi dei confini alimentari dovuti al clima: studiosi dell’Europa individuano un immaginario confine tra popolazioni del Nord, dove si consuma birra e burro, e popolazioni del Sud, dove prevalgono vino e olio. 

I confini alimentari diventano identitari. Nel cibo spesso ci si identifica, come accade soprattutto in Italia

C’è poi il tema delle scelte etiche e politiche, come quelle di animalisti, vegetariani e vegani.

Qui non necessariamente si tratta di un tabù religioso, ma è una scelta di tipo etico che comporta il  sentirsi parte del mondo animale, rifiutare ogni forma di sfruttamento e dunque avere una diversa concezione della natura, dell’ambiente e di noi stessi in relazione con il pianeta.

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Nel corso della storia e ancora oggi il confine ha generato conflitto e separazione tra le persone. Se, tuttavia, l’esperienza umana sembra non potere rinunciare al confine, come si può fare in modo che questo non favorisca intolleranza, razzismo e fondamentalismo?

Cito un’esperienza diffusa in molte parti dell’Africa nota come “relazione scherzosa”. Quando due individui appartenenti a diversi gruppi etnici si incontrano, prima di salutarsi quasi si insultano in modo benevolo. Ci si prende in giro sullo stereotipo che uno ha dell’altro, come se noi incontrassimo un francese e gli dicessimo “voi mangiate sempre rane” e lui rispondesse “voi mangiate solo spaghetti”, per poi alla fine abbracciarsi e scherzarci sù. Questo è un sistema intelligente che porta a non fingere sul fatto che non vi siano differenze: dove c’è un confine, esiste la differenza. Molte volte si tende a dire “siamo tutti uguali”, ma non è così. Se quella differenza può anche essere motivo di ironia, non deve essere necessariamente radicalizzata in una incompatibilità. Sarebbe un po’ come dire: forse abbiamo bisogno di avere dei riferimenti, dei confini, però tra un confine tracciato a matita e un muro ci sono molte possibilità intermedie. Possiamo mantenere la nostra identità, senza per forza negare quella degli altri o considerarla avversa a noi. E accettare il fatto che i confini cambiano: chi oggi è di là, domani sarà di qua, o noi magari saremo altrove. Pensiamo a quante volte noi italiani abbiamo passato i confini per emigrare, siamo un popolo che ha viaggiato per quasi un secolo. Un esercizio di memoria ci aiuterebbe a capire chi oggi è costretto a fare la stessa cosa, in direzione inversa.

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