2 settembre 2024
Febbraio 1995. Le acque del mar Tirreno restituivano alla spiaggia di Colamaio, nel territorio di Pizzo Calabro, un piede in una scarpa da tennis, frammento di un corpo lentamente decomposto dall’azione delle acque. Secondo i rilievi, i resti appartenevano a Francesco Aloi, 22enne scomparso a Filadelfia il 16 settembre 1994. Non è l’unico caso in quella porzione della provincia di Vibo Valentia, nota alle cronache come il "triangolo della lupara bianca", che comprende anche altri comuni come Francavilla Angitola e Curinga, incastonati tra viali impervi e distese boschive teatro di una criminalità brutale, di noti clan di ’ndrangheta e sanguinose faide.
Secondo una rilevazione fatta nel 2009 dal Corriere della Sera, la provincia vibonese registra il più alto numero – fino ad allora 43 – di "omicidi senza cadavere". Stima destinata a salire se si includono i casi più recenti. Da ultimo quello rivelato dall’indagine sulla scomparsa di un pastore di origine romena nelle campagne di Filandari, risalente al 2008. L’avvocato Nicodemo Gentile, presidente dell’associazione Penelope, parla di "scomparse di stampo mafioso". Una casistica tutta calabrese, divenuta nota dopo il caso di Maria Chindamo, imprenditrice della quale si sono perse le tracce il 6 maggio 2016 davanti al cancello dei suoi terreni agricoli a Limbadi. Vicende segnate dalle lacrime di figli, sorelle, fratelli, madri che, come novelle Antigone, si rivolgono agli aguzzini dei propri cari per poter avere indietro le loro spoglie mortali. "Vorrei seppellire il corpo di mio figlio, avere un posto dove andarlo a trovare – aveva detto Antonietta Pulitano, madre di Francesco Aloi –. Quello non è lui". La famiglia ha rifiutato di seppellire i resti ritrovati sulla spiaggia di Pizzo, chiedendo risposte per una delle tante memorie occultate nei cimiteri senza loculi né fiori delle campagne vibonesi.
Maria Chindamo, la scomparsa di un'imprenditrice calabrese
“L’assenza di un corpo impedisce gli accertamenti. Così è molto più semplice per chi commette il reato rimanere impunito”Marisa Manzini - Sostituto procuratore generale a Catanzaro
La mancanza "dell’oggetto del reato" rende difficile, spesso impossibile, istruire inchieste e processi. "Il nostro impegno serve anche a questo – dice a lavialibera Vincenzo Chindamo, fratello di Maria –. Per avere giustizia non possiamo aspettare una verità giudiziaria che forse mai arriverà". Come spiega a lavialibera Marisa Manzini, sostituto procuratore generale a Catanzaro, "l’assenza di un corpo impedisce di fare gli accertamenti e di capire quali siano state le dinamiche del delitto, l’arma, le modalità della morte della persona. Così è molto più semplice per chi commette il reato rimanere impunito".
Dietro a questo modus operandi si cela "una crudeltà non da poco". I pentiti raccontano di persone interrate prima ancora di esalare l’ultimo respiro, di corpi ridotti a brandelli e dati in pasto ai maiali. "Si bruciano e dopo si rompono e si seminano" e i resti diventano "letame per le piante di noce", racconta il collaboratore Carlo Vavalà ricostruendo la dinamica dietro alla scomparsa, il 23 gennaio 1990, del giovane meccanico di Porto Salvo Francesco Covato. "Aggiungere all’uccisione anche l’occultamento del cadavere rende la cosa ancor più crudele e confonde chi la subisce – continua Manzini –, nelle faide interne lascia il dubbio su chi possa essere stato l’autore; esprime la volontà di fare doppiamente male, anche ai familiari, che non possono piangere il defunto".
Sorte toccata ad Elsa Tavella, madre di Francesco Vangeli, 26enne artigiano scomparso il 9 ottobre 2018 a San Giovanni di Mileto. A tendergli una trappola sarebbero stati i fratelli Antonio e Giuseppe Prostamo. Il primo, ‘Ntoni o diavolo, com’è conosciuto in quelle zone, rimproverava a Vangeli la relazione con una giovane su cui rivendicava un deviato diritto di proprietà.
Per l'omicidio di Maria Chindamo ci sono i primi indagati
"Non capisco come, in alcuni contesti, innamorarsi possa corrispondere a un delitto efferato"Matteo Luzza - Fratello di Pino Russo Luzza, vittima innocente della 'ndrangheta
Dietro molti casi di desaparecidos calabresi, venuti alla luce tra l’Angitolano e le Preserre vibonesi, ci sono relazioni pericolose in un contesto intriso di cultura mafiosa e animato da un concetto perverso di onore, dove la donna è spesso concepita come merce da investire in unioni forzate e matrimoni combinati. "Le indagini sulla sparizione di diversi giovani uomini – spiega Manzini – hanno portato a supporre che siano stati uccisi e fatti sparire perché avevano intessuto relazioni pericolose con donne di ’ndrangheta".
La magistrata conosce da vicino il caso di Michele Penna di Sant’Onofrio, che avrebbe avuto alla base un duplice movente: la volontà del giovane di creare un gruppo di ’ndrangheta autonomo ponendosi in contrasto col suocero e una relazione "con la donna sbagliata". Nonostante i collaboratori non siano riusciti a indicare l’ubicazione del corpo, come esecutore dell’omicidio è stato condannato in via definitiva a 24 anni Emilio Antonio Bartalotta.
Così sarebbe stato anche per Francesco Aloi, per Valentino Galati oppure Santo Panzarella, 29enne scomparso a Curinga il 10 luglio 2002. La madre, Angela Donato, che in gioventù ha conosciuto il contesto mafioso e anche per questo ha fatto di tutto affinché il figlio ne rimanesse lontano, per avere informazioni ha bussato alla porta e guardato negli occhi da pari a pari i boss locali. Lì operano gli Anello-Fruci, interessati, da ultimo a luglio 2020, dall’operazione Imponimento della Dda di Catanzaro, che li descrive come "una consorteria efficiente, storicamente vicini ai clan delle serre vibonesi e improntati ad un estremo pragmatismo". La storia di questa madre è raccontata da Cristina Zagaria nel libro L’osso di Dio.
Si è scoperto che Santo, dopo la decisione di tornare in Calabria, era entrato in un giro pericoloso che lo ha portato a frequentare la moglie del boss della Piana del Lametino, Rocco Anello, in quel periodo in carcere. Quella relazione clandestina è risultata fatale. "Cerca di scoprire qualcosa, almeno aiutami. Se è morto, aiutami a ritrovare il corpo", diceva Angela Donato alla moglie del boss durante il loro unico incontro. L’appello è caduto nel vuoto. Il collaboratore di giustizia Francesco Michienzi ha fornito delle informazioni, ma non si è giunti a nessuna verità giudiziaria, nemmeno dopo il ritrovamento di una clavicola del giovane lungo le sponde del torrente Angitola. I presunti responsabili sono stati assolti nel 2009.
"Non capisco come, in alcuni contesti, innamorarsi possa corrispondere a un delitto efferato", dice oggi a lavialibera Matteo Luzza, fratello di Pino Russo Luzza, 21enne operaio edile scomparso ad Acquaro il 15 gennaio 1994. Dopo anni di buio, la famiglia ha scoperto la verità grazie alle dichiarazioni di Gaetano Albanese, killer vicino ai Piromalli-Molè di Gioia Tauro, assoldato per far scomparire il giovane all’epoca fidanzato con Angela, cognata di Antonio Gallace. Nell’immaginario del boss di Arena (tra i comuni controllati dalla cosiddetta Società di Ariola), la ragazza era destinata a un’unione utile a intessere rapporti con altre famiglie e la relazione con Russo rappresentava un ostacolo oltre che una macchia alla sua reputazione. "Di lupara bianca si parlava tanto in quel periodo ma noi non la volevamo accettare associandola a Pino – ricorda Matteo Luzza –. Le dichiarazioni di Albanese hanno squarciato il velo su un sottomondo dove onore e rispetto si dimostrano con la prevaricazione, come quella di Gallace verso la cognata". Quelle scoperte hanno dato avvio al processo e alla costituzione di parte civile dei familiari, che in seguito hanno ricevuto a casa una busta contenente due proiettili e una foto di Pino. I parenti della vittima non sono arretrati nella denuncia, Gallace è stato condannato all’ergastolo mentre gli esecutori hanno ricevuto pene di oltre 20 anni.
Libera e l'elenco delle vittime di mafie, una scelta complicata
Secondo il referente di Libera in Calabria, Giuseppe Borrello, la 'ndrangheta è capace di invadere i mercati finanziari con tecnologie moderne, ma mantiene una "sottocultura patriarcale e antiquata"
La pratica è usata dai clan anche per aver ragione di conflitti interni, per eliminare testimoni scomodi – spesso anche involontari – delle attività criminali, mettere in atto vendette, come sarebbe stato nel caso di Roberto Soriano, scomparso nel 1996 per volere del clan di San Gregorio d’Ippona. Oppure, ancora, per punire chi si è macchiato di "lesa mafiosità". L’espressione è stata usata da Pantaleone Sergi in un articolo del 1997 che riportava nuovi elementi di indagine legati al sequestro e omicidio del 34enne dentista di Briatico Giancarlo Conocchiella. Il commando, si diceva, avrebbe svolto quell’azione "senza licenza", un oltraggio che è stato pagato con la morte di Francesco Santaguida e Filippo Vita e con la scomparsa di Nicola Candela.
Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta si registra il picco dei casi di sparizione. È la prima fase della faida delle Preserre, inizialmente scoppiata tra le famiglie Maiolo e Loielo per il mancato accordo sulla spartizione dei proventi di una rapina. La scissione tra i gruppi ha avuto inizio nel 1988 ed è culminata due anni dopo con l'omicidio del boss Rocco Maiolo, già sfuggito a numerosi attentati.
Casi, anche questi, che sarebbero rimasti di lupara bianca se non fosse stato per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Il boss pentito di Vibo Valentia Andrea Mantella, vicino ai Lo Bianco-Barba, ha offerto ulteriori spaccati sul modo di pensare e agire dei clan. Dibattuto, in tal senso, è stato il caso di Filippo Gangitano noto come U picciottu, ucciso per volere dei Lo Bianco per aver disatteso "le regole della malavita che esclude l’esistenza di un associato gay". Così ha raccontato Mantella, che ha sostenuto anche di aver provato a barattare quell’esecuzione con l’esilio o la rimozione della dote di Gangitano, sentendosi opporre che "queste cose nella ’ndrangheta non devono esistere". Secondo un altro collaboratore, Bartolomeo Arena, non era questo il movente della scomparsa di Gangitano, bensì la percepita minaccia che potesse iniziare una collaborazione con la giustizia. Del corpo, che si presumeva fosse stato spostato dal luogo dell’omicidio, non vi è ancora nessuna traccia.
Aspetti che, a detta del referente calabrese dell’associazione Libera Giuseppe Borrello, evidenziano il carattere "contraddittorio" dell’agire ‘ndranghetista. Da un lato capace di invadere i mercati finanziari anche grazie all’utilizzo delle più moderne tecnologie, dall’altro asservita a una "sottocultura patriarcale e antiquata" che si manifesta soprattutto nei casi di lupara bianca. Una modalità "atroce per far fuori una persona" che "secondo quei codici e leggi si sarebbe macchiata di una colpa talmente grave da rendere necessario cancellarne ogni traccia. Oltre al corpo, se possibile, anche la memoria", fonte di "fastidio e imbarazzo per i cosiddetti uomini d’onore". Non a caso Libera ha scelto Gerocarne, tra i comuni toccati dalla faida, per celebrare la giornata del 21 marzo 2022. "Gli ndranghetisti presenti in piazza – conclude Borrello – hanno mostrato fastidio e intolleranza nell’ascoltare a casa loro l’elenco dei nomi delle vittime innocenti delle mafie".
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