12 settembre 2024
Aveva finito le lacrime. Dopo la morte di sua figlia Maria Rosa, nel 2004, non riusciva più a piangere. Troppe le persone a lei care (a cominciare da suo marito) uccise dall’amianto dell’Eternit. Non ne versava più di lacrime, ma riusciva a indignarsi e a lottare per il lavoro, per la salute, per l’ambiente e contro l’impunità dei potenti. Romana Blasotti Pavesi, scomparsa all’età di 95 anni mercoledì 11 settembre 2024 a Casale Monferrato (Alessandria), dove c'era il principale stabilimento italiano della multinazionale, si è battuta a lungo per avere giustizia per la sua famiglia e per i suoi concittadini. Un’attivista implacabile, nonostante i lutti, l’età e le delusioni provocate dalle sentenze. “Una vita dedicata alla lotta all’amianto, ma anche una vita segnata dal dolore”, la ricorda l’Associazione dei familiari e vittime dell’amianto (Afeva), che lei aveva presieduto per trent’anni. “Sei stata una combattente e un simbolo per tutta la città”, la ricorda il sindaco Emanuele Capra. Venerdì 13 settembre sarà lutto cittadino a Casale, dove tutti la conoscevano semplicemente come Romana.
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"Mi sono molto arrabbiata perché non ci si può ammalare per lavoro”
“Ho cominciato a lottare nel febbraio del 1982, quando mio marito Mario (Pavesi, lavoratore dell’Eternit e delegato sindacale, ndr) si è ammalato", raccontava il 3 giugno 2013, dopo la sentenza d’appello contro Stephan Schmidheiny, ultimo proprietario della multinazionale condannato a 18 anni di reclusione per disastro ambientale e omissione volontaria delle cautele antinfortunistiche. "Io non conoscevo ‘quella cosa’ – diceva lei riferendosi al mesotelioma pleurico, un tumore provocato dall'amianto –. Mi sono molto arrabbiata perché non ci si può ammalare per lavoro”. Suo marito è morto nel 1983. L’anno dopo è toccato a sua sorella Libera, e poi ancora a suo nipote, una cugina e infine sua figlia Maria Rosa. A parte il marito, nessuna di queste vittime aveva lavorato per l’Eternit, ma avevano respirato quella fibra killer che gli operai si portavano a casa, loro malgrado, e che dalla fabbrica si era diffusa in tutta Casale Monferrato. Lei, una semplice casalinga rimasta vedova, aveva cominciato a lottare nel 1986, rivolgendosi alla Camera del lavoro della cittadina piemontese, e non aveva più smesso, neanche dopo le prime sentenze di condanna contro i proprietari dell’Eternit: “La lotta non è finita e le morti continuano”, ricordava dopo il verdetto d'appello, perché l’amianto provoca un tumore che ha un periodo di latenza lungo, e quindi si manifesta molti anni dopo averlo respirato.
Nei tribunali il percorso difficile delle vittime del profitto
"Nessuno ha il diritto di far morire la gente per i propri guadagni (...) Ho la convinzione che non abbiano capito la tragedia che hanno provocato per il loro amianto"
Oltre al piano penale, c’era l’aspetto non meno importante dei risarcimenti, che per le famiglie degli operai voleva dire avere almeno qualche soldo per l’assistenza sanitaria nei periodi peggiori della malattia. “Lui (Schimdheiny, ndr) lotta per non pagare i risarcimenti. Nessuno ha il diritto di far morire la gente per i propri guadagni. Io sono stanca di assistere a malattie e morti. Non ho rancori, odio o sete di vendetta, ma vorrei tanto che i colpevoli assistessero da principio a fine un malato. Ho la convinzione che non abbiano capito la tragedia che hanno provocato per il loro amianto”. Aveva però richiamato – e anche con un certo piglio – l’allora sindaco di Casale Monferrato, Giorgio Demezzi, quando l’amministrazione cittadina stava per accettare l’offerta dell’imprenditore svizzero, a patto che la città non si costituisse parte civile nel processo.
Da presidente, insieme al coordinatore Bruno Pesce, aveva guidato per molti anni l’Afeva, che insieme alla Camera del lavoro e Nicola Pondrano aveva animato le proteste degli abitanti di Casale Monferrato e dei dintorni, cercando di estendere la battaglia dove necessario, anche in Francia, Belgio, Brasile, ovunque ci fossero altre vittime dell’inquinamento da amianto. Ai processi torinesi, Romana Blasotti Pavesi non è mai mancata, finché la salute gliel’ha permesso: “Abbiamo lottato e siamo consapevoli di averlo fatto. Sappiamo quanto ci è costato, ma siamo arrivati a questo punto insieme”.
Quando quel processo è arrivato davanti alla Cassazione e il procuratore generale ha chiesto il proscioglimento di Schmidheiny per la prescrizione dei reati, è giunta un’ulteriore amarezza della sua vita. “Vorrei incontrare Stephan Schmidheiny – aveva dichiarato al giornale Il Monferrato – visto che lui continua a dire che è innocente e che si sente sereno. Noi dopo tanti anni dalla morte dei nostri cari non siamo sereni. Vorrei che avesse il coraggio di guardare una moglie che ha perso il marito negli occhi, o una mamma il figlio o dei bimbi piccoli che hanno perso il padre. Abbia il coraggio di guardaci negli occhi e di sentirsi innocente”. Dopo quel verdetto, la procura di Torino ha dato il via a un nuovo procedimento, che finora ha avuto esiti alterni.
Lei, da parte sua, aveva voluto incontrare l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, che aveva annunciato una riforma della prescrizione dopo il proscioglimento dell'imprenditore svizzero: “Gli chiederemo due cose: che mantenga le promesse sulla prescrizione e lo faccia subito; e che stanzi le somme necessarie per ultimare la bonifica. Deve far presto, soprattutto per le nuove generazioni”. Perché la Romana lottava non soltanto per i suoi cari e i suoi concittadini, ma anche per le generazioni future e per le vittime di altri angoli del mondo. E per queste ragioni molti di quelli che l’hanno conosciuta la ricorderanno come un esempio.
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