17 ottobre 2024
C’è la gioia di Giorgia, che ha ottenuto a 18 anni la cittadinanza, che mi mostra orgogliosa la sua tessera elettorale appena ritirata e mi chiede: “Prof, però adesso mi spiega come si vota”. Ci sono poi la franchezza di Angelina, non ancora “cittadina”, che puntando i piedi esclama: “Vorrei che si capisse che la cittadinanza è un modo di permettere alle persone di poter partecipare in modo attivo alla vita democratica del paese in cui si risiede e un modo di sentirsi a casa e parte di una comunità” o la capacità filosofica di Giulia che mi dice “parliamo, pensiamo, sogniamo in italiano”. C’è chi infine afferma – come Asia, Emanuele, Margherita, Khaddy, Gloria, Omar e Drilona – che le istituzioni non stanno facendo abbastanza per l’accesso alla cittadinanza e che dovrebbero affrontare la questione come una priorità.
In questi anni di lavoro come insegnante (precario) in classi spesso multietniche, ho imparato, anche grazie alle esperienze dirette di molte studentesse e studenti, che si può fare un gran lavoro sul tema della cittadinanza. Su questo aspetto della vita democratica, la scuola può avere un ruolo cruciale e fungere da cassa di risonanza, da una parte affrontando il tema nelle classi e, dall’altra allargando la pressione sulle istituzioni per una sostanziale riforma.
Chi sostiene lo ius scholae o lo ius soli dovrebbe appoggiare il referendum per la cittadinanza
"Per affrontare la questione della cittadinanza, così come molti altri temi, bisogna mettere al centro le parole e le esperienze di chi sulla propria pelle sente ricadere l’esclusione all’accesso di questo status giuridico fondamentale per la piena partecipazione, per l’accesso alle pari opportunità e possibilità"
In classe, nelle ore di diritto ed economia, filosofia e scienze umane, ci ritroviamo a discutere di confini, che tracciano linee di demarcazione tra chi sta dentro e chi sta fuori, del concetto di “straniero” e dell’espressione “altro da me”. La responsabilità di trattare questioni di rilevanza sociale è alla base della nostra pratica e del nostro lavoro, non possiamo solamente trasmettere contenuti astratti e svuotati dagli esempi. La questione della cittadinanza è una di quelle. Questa ha molti contatti rispetto ai concetti di confine e straniero.
Oltre a ricordare per inciso l’importanza della raccolta di oltre mezzo milione di firme, avvenuta in questi giorni e terminata il 30 settembre, per indire il referendum per la modifica della legge n. 91/1992 sulla cittadinanza italiana, mi vorrei soffermare sull’importanza di “educare alle differenze” e trasformare questa impostazione in una pratica di insegnamento, che con le studentesse e gli studenti con cui ho condiviso la classe, ho provato ad impostare.
Partiamo da un dato sulla scuola italiana. Secondo l’ufficio di statistica del ministero dell’Istruzione e del merito sono presenti 914 mila alunni con cittadinanza non italiana, pari all’11,2 per cento degli iscritti nelle scuole del paese. Il 65 per cento di questi sono nati in Italia (2 studenti su 3), ma non possono accedere alla cittadinanza fino a 18 anni, a meno che uno dei loro genitori non l'ottenga prima. In classe, partendo da un semplice numero possiamo cominciare a porci delle domande, dai criteri per l’accesso a un documento, che, per chi è italiano rappresenta semplicemente una carta magnetica. Per chi ancora non lo è, tale documento rappresenta 18 anni di attesa (per chi nasce e cresce in Italia) o dieci anni di residenza continuativa nel territorio: di fatto parliamo di persone ritenute straniere nel luogo in cui nascono o crescono e vivono.
Il dibattito in classe nasce proprio da queste suggestioni e mettendo al centro le storie di ognuna e ognuno. Ecco che il mantra, che spesso è possibile leggere sui titoli di quotidiani mainstream, “questi giovani non si interessano di politica”, viene presto smentito. Per affrontare la questione della cittadinanza, così come molti altri temi, bisogna mettere al centro le parole e le esperienze di chi sulla propria pelle sente ricadere l’esclusione all’accesso di questo status giuridico fondamentale per la piena partecipazione, per l’accesso alle pari opportunità e possibilità, che l’articolo della 3 della Costituzione pone al centro affinché esista un’effettiva uguaglianza sostanziale.
Portare in classe la questione della cittadinanza, i problemi e i limiti della legge 91/1992, che relega questo status giuridico a una questione di discendenza e di “sangue”, è fondamentale per una serie di aspetti. Dalle esperienze e dalle voci delle studentesse e degli studenti possiamo calarci direttamente nei vissuti e nelle esperienze personali che aiutano al gruppo classe a formulare un pensiero critico funzionale a scardinare quegli schemi che ci bloccano e ci portano a non esporci per la paura di essere giudicati o finire per ricevere domande o sentire affermazioni del tipo “quanto parli bene l’italiano” o “l’italianità è una cosa seria”, o ancora “non possiamo regalare la cittadinanza a chi non è come noi e a chi non se lo merita”. Queste domande e affermazioni caratterizzano la vita di chi viene percepito come “altro” e “straniero” rispetto a un’idea di appartenenza percepita come "naturale".
"Io, nata in Italia ma trattata da immigrata"
“La privazione dei diritti si manifestava nella privazione di avere un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto”Hannah Arendt
Esiste un “il diritto ad avere diritti”, affermava Hannah Arendt nella sua opera Le origini del Totalitarismo. La filosofa intendeva con questa espressione che “la privazione dei diritti si manifestava nella privazione di avere un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto”. Potremmo parafrasare questa frase in questo modo: bisogna partire dall’esclusione e dal non riconoscimento dei diritti per comprendere quanto è importante rivendicarli, se questi vengono limitati o addirittura non riconosciuti. Per riconoscere l’esclusione e la sofferenza c’è bisogno di empatia. Questa affermazione ci permette di sostenere quest’idea: chi è incluso in un diritto deve lottare insieme a chi ne è escluso, solo in questo modo la democrazia evolve. Non possiamo arroccarci sulla torre del nostro privilegio, poiché anche i diritti possono essere ridotti, sottratti o non venir mai riconosciuti per una determinata categoria di persone.
In questi anni ho insegnato in classi multietniche e in cui l’interculturalità è stato elemento indispensabile e fondamentale per educare alle differenze e ho potuto osservare una serie di atteggiamenti. In un primo momento di presentazione dell’argomento, da una parte, sentimenti di chiusura – a volte in linea con la propaganda dell’”italianità” come principio da difendere e del merito, (”non bisogna regalare la cittadinanza”) – e di non comprensione dell’importanza dell’ottenimento della cittadinanza. Successivamente, affrontando l’argomento, i sentimenti di chiusura si sono trasformati da un lato in ripensamenti, voglia di non soffermarsi ad apparenze e banalità, curiosità nel voler conoscere in maniera approfondita in cosa consista l’iter per l’ottenimento della cittadinanza, le discriminazioni e i cavilli burocratici. A tal fine, abbiamo raccolto riflessioni e pensieri in modo da non perdere tutto ciò che era stato detto e fatto. Spunti di cui tutti dovremmo fare tesoro.
Il focus delle loro riflessioni è centrato sulle falle della legge 91/1992, sulla violazione di un loro diritto e sull’incredulità di non essere considerati cittadini, sebbene molti di loro vivano in Italia da sempre o hanno ormai frequentato più cicli scolastici. Il punto che accomuna i pensieri di tutte le studentesse e di tutti gli studenti, a prescindere che abbiano o meno la cittadinanza, è che la legge ha uno sguardo non al passo con i tempi, che salvaguardia un principio nazionalistico e basato sulla discendenza, ormai arrugginito e non in linea con il tessuto sociale dell’Italia.
Ius scholae e ius culturae, la terza via per la cittadinanza
Il mezzo milione di firme raccolte in pochissimo tempo per il referendum sulla cittadinanza ci dimostra che i desideri e le visioni di questa società non sono le stesse del governo attuale e di quelli che lo hanno preceduto. La domanda a questo punto ricade su quale tipo di scuola ci immaginiamo. Una scuola al servizio della comunità o una scuola al servizio del mercato? Una scuola che educa alla complessità e allo spirito critico o che assoggetta ai valori del potere e all’obbedienza?
Per questo, sul tema della cittadinanza, l’istruzione può avere un compito fondamentale. La scuola non può lasciare indietro nessuno, ognuno con la propria soggettività. Partecipando insieme a studentesse e studenti in questa dialettica, che presuppone un agire, voglia di cambiamento e riconoscimento, la questione che reputo più rilevante di tutte è stimolare il pensiero critico di studentesse e studenti per facilitare l’espressione dei loro pensieri, delle loro idee e dei loro vissuti. Tenendo tuttavia presente l’importanza di non lasciarsi andare a semplificazioni del reale, comprendendo fino in fondo che le società sono cambiate e che i retaggi razzisti, xenofobi e discriminatori devono essere sradicati dalla nostra comunità educante. Se non partiamo da questo punto la riproduzione dell’odio e della violenza si concretizza nel reale per sfociare dalle parole ai fatti.
Credo che se si è in grado di costruire una relazione didattica che ha come obiettivo la condivisione e l’espressione del proprio pensiero critico, la comprensione di ciò che ci circonda potrebbe essere più semplice, e possa effettivamente avere i suoi effetti benefici su tutti, sia su chi insegna, sia su chi apprende, abbattendo così i confini e le differenze. È a partire da un ascolto attivo, attento e partecipe di ogni differenza che è possibile creare comunità in cui ragazze e ragazzi si sentano a casa e acquistino quella fiducia in loro stessi di cui hanno bisogno e diritto.
Solo affrontando questioni reali si riesce effettivamente a toccare le corde delle esperienze, dei sentimenti e delle emozioni. E dei diritti, come quello alla cittadinanza.
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