30 ottobre 2024
Scontri sempre più violenti, in cui i problemi si risolvono a colpi di arma da fuoco. Quando a perdere la vita sono giovanissimi, come è accaduto a Napoli al quindicenne Emanuele Tufano nella notte tra il 23 e il 24 ottobre, rimangono la tristezza, la rabbia e la volontà di rispondere con soluzioni emergenziali: telecamere, dispiegamento massiccio di forze dell'ordine, punizioni esemplari. Tuttavia la presenza dello Stato non può essere solo in divisa. A proporre un'alternativa sono le parti sociali e il terzo settore, che da anni accompagnano i ragazzi e le ragazzi dei quartieri popolari in un percorso educativo. "Serve una legge regionale sulla presa in carico dei minori – racconta a lavialibera Mariano Di Palma, referente regionale di Libera Campania – che è la radicale alternativa al decreto Caivano". Lo abbiamo intervistato per capire di cosa si tratta.
"Minori stranieri non accompagnati, se si perdono è per la nostra responsabilità"
Cosa è accaduto quella notte?
L'ennesimo giovane di 15 anni è stato colpito con colpi di arma da fuoco in un quartiere popolare nel pieno centro di Napoli. Fenomeno che purtroppo abbiamo conosciuto ripetutamente nella storia di questa città, ma ora è visibile anche un altro connotato: la qualità della violenza.
Già con le storie delle due ultime vittime innocenti, Francesco Pio Maimone a Pianura e Giovanbattista Cutolo nel centro città, raccontano di una esplosione della violenza giovanile che è sempre stata un problema di Napoli, perché non è una novità il coinvolgimento di giovani sia dentro fatti di camorra sia in episodi che invece non coinvolgono la criminalità organizzata. A cambiare è l'uso delle armi, perché oggi ragazzi minorenni di 14-15 anni, ma anche più piccoli, scendono per strada nel pieno della notte e si scontrano in vere e proprie guerre tra bande con colpi di arma da fuoco. C'è però un particolare che non può essere dimenticato.
Oltre il decreto "Caivano": storie di minori che riparano il danno (fuori dal carcere)
Di cosa si tratta?
Il problema delle recrudescenze tra minori e dei minori è un problema che riguarda tutte le periferie delle grandi città, da Milano a Torino, da Roma a Genova
Dell'esplosione della violenza giovanile, anche per uscire dallo stereotipo che rischia di cadere su Napoli, non riguarda solo questo territorio. Il problema delle recrudescenze tra minori e dei minori è un problema che riguarda tutte le periferie delle grandi città, da Milano a Torino, da Roma a Genova. Nella nostra città assume un connotato più importante per una ragione molto semplice ed è il tipo di criminalità organizzata urbana che qui si è sviluppata.
Parlare di emergenza è fuorviante?
Parlare di emergenza è fuorviante per due ragioni: il numero dei morti e per le risposte "eccezionali" che vengono date, ma che non hanno futuro
È fuorviante parlare di emergenza per due ordini di ragioni: la prima è che siamo di fronte a una "permanenza", perché Emanuele Tufano non è il primo giovane che muore sotto colpi di arma da fuoco, ma sono decine e decine le vittime e questi fatti si inseriscono nella storia della città. La seconda, invece, ha a che fare con il versante delle risposte. A Napoli, ogni volta che muore un ragazzo, in una scia di violenza che coinvolge giovani e adulti, si risponde sempre con politiche di emergenza, in ottica solamente securitaria che però non portano a nulla. Anche nel caso degli ultimi episodi, la risposta delle istituzioni nazionali e locali è emergenziale, che si chiude nell'utilizzo delle telecamere di sorveglianza e presenza più importante delle forze dell'ordine. Queste sono misure necessarie, perché la sicurezza è un tema evidente per la città, però non si costruisce mai una filiera integrata di politiche che siano in grado di agire per prevenire il problema e non per punire il colpevole.
Qual è il ruolo della violenza nell'affermazione dell'identità dei giovanissimi?
La violenza oggi diventa non solo più un linguaggio e la forma organizzata delle camorre, essendo l'approccio camorristico strutturato in alcuni contesti urbani diventa il modo di relazionarsi di alcune comunità chiuse, ghettizzate, all'interno dei quartieri popolari e che utilizzano la violenza per regolare il rapporto di relazione, la propria catena di comando, in un meccanismo di sopraffazione interna. L'egemonia violenta diventa un patrimonio sottoculturale di micro-comunità e questo deve essere sottolineato: i quartieri popolari non sono tutti abitati da gente violenta e criminale, ma poche famiglie tengono in ostaggio la maggioranza di chi in quei luoghi vive e lavora, va a scuola, cerca di costruire il proprio futuro su un solco più onesto. Mancano infrastrutture, politiche culturali, lo Stato, che è presente solo con l'esercito e le forze dell'ordine.
Qual è una risposta lungimirante a episodi come questi?
Il lavoro di periferia con i ragazzi è di frontiera, psicologicamente molto tosto e precario
Fortunatamente, la proposta è già in atto. Quello che fanno le educative territoriali, le parrocchie, movimenti sociali, i presidi di Libera, le tante associazioni presenti sui territori è la controproposta sociale: sviluppare un modello di relazione, di comunità, di modo di vivere basato su una dimensione alternativa sull'egemonia che i clan hanno tentato di imporre.
Il problema è che questo lavoro di cura e relazione che coinvolge decine di ragazzi non è sufficiente, perché le politiche pubbliche sono assenti e gli enti del terzo settore lasciati a loro stessi, in preda a una competizione affannosa sui bandi che vengono emanati, senza una strategia organica. A questo si aggiunge che molto spesso si tratta di un'azione volontaria, che molto spesso è precaria, e anche gli operatori e le operatrici e chi sceglie di fare l'educatore viene pagato con mesi di ritardo e dopo qualche anno, preferiscono altri impieghi. È un lavoro di frontiera, faticoso, psicologicamente molto tosto, perché si ha che fare con la marginalità.
Cosa serve, allora?
Una politica pubblica capace di rispondere alle esigenze del territorio. Questa è la proposta che Libera sta mettendo in campo: una legge regionale che designi la presa in carico dei minori, che costruisca strategie coprogrammate con chi opera nei territori con risorse pubbliche per creare una visione che duri nel tempo e che si faccia carico delle storie di povertà educativa. Così quello che già si fa, diventa una politica pubblica imponente nei quartieri popolari. A questo poi si deve affiancare un servizio di intelligence, non come mero dispiegamento di forze dell'ordine e di sistemi di sicurezza, ma come impegno finalizzato a togliere dal mercato e dalle case le armi che sono presenti. In famiglie in cui ci sono dei componenti che vengono arrestati o ai domiciliari, le armi rimangono vicine ai giovanissimi, che le usano tanto per controllare le piazze di spaccio come per risolvere un problema relazionale tra di loro, come abbiamo visto nell'ultimo anno e mezzo. Sicurezza vera e non retorica da un lato, una politica pubblica con una visione chiara e condivisa dall'altro.
Sono proposte che richiedono di cambiare prospettiva.
Napoli è luogo di sperimentazione e innovazione, ma serve una politica pubblica in grado di sostenere gli sforzi del terzo settore
Sì, cambiano lo sguardo sul lavoro con i minori e raccolgono e moltiplicano lo sforzo che già si sta facendo, perché Napoli è un luogo di sperimentazioni, di innovazioni, realtà, ma tutto questo è frammentato. Mentre il governo dice "riempiamo le carceri minorili, con pene esemplari per i ragazzi che delinquono", noi vogliamo fare un lavoro di prevenzione mettendo intorno allo stesso tavolo il decisore pubblico e chi opera nei territori. La presa in carico dei minori è la radicale alternativa al decreto Caivano.
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