8 novembre 2024
Dal 2017, insieme ad altri familiari di vittime ho frequentato per quattro anni il Centro di giustizia riparativa e mediazione penale del Comune di Milano per riflettere sui nostri vissuti di sofferenza. In questo lungo periodo sono riuscito a proiettarmi oltre il mio trauma, l'uccisione di mia sorella Emanuela Setti Carraro, moglie del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, avvenuta a Palermo il 3 settembre del 1982. Ho partecipato in seguito a una serie di incontri con i detenuti del Gruppo della trasgressione (trasgressione.net), diffusosi in scuole e penitenziari, e frequento ogni settimana il carcere di Opera, a Milano, come membro del gruppo.
Giustizia riparativa, dare senso al dolore delle vittime
La giustizia restaurativa punta a risanare e ricomporre un equilibrio nelle relazioni sociali che l’infrazione ha lacerato. Tale accezione, a mio parere, è da preferire a quella di giustizia riparativa, benché siano equivalenti nel metodo. La differenza fondamentale sta nel fatto che la giustizia riparativa, intesa comunemente come mediazione, prevede obbligatoriamente l’incontro tra l’autore dell’infrazione e la vittima, cosa che non sempre è possibile, auspicabile o desiderata nella fattispecie di crimini di sangue.
Giustizia restaurativa significa risanare e ricomporre un equilibrio nelle relazioni che il trauma ha fratturato
Ma qual è l’oggetto che vogliamo tutelare e restaurare? L’uomo è un essere animale dotato di raziocinio, che si nutre di relazioni interpersonali. È all’interno di queste relazioni e grazie ad esse che prospera e progredisce. È con il dialogo, con l’uso della parola, che si crea e mantiene l’armonia collettiva, fondata sul rispetto ed il riconoscimento della dignità universale.
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Non è un caso che la giustizia restaurativa si sia affermata, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, all’interno di comunità autoctone e tradizionali che conservano e fanno tesoro di sentimenti comunitari solidali. Penso alle comunità Inuit del Canada, ai nativi Navajos del nord America, alle comunità bantu africane, caratterizzate dal sentimento di ubuntu – benevolenza verso il prossimo – a quelle mennonite statunitensi o quelle Maori della Nuova Zelanda, nelle quali la sofferenza di un singolo membro, causata da un misfatto, è avvertita e vissuta come oltraggio all’intera comunità e motivo di sofferenza generale.
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Allorché un misfatto lacera l’equilibrio, l’intera comunità è spronata alla ricerca di soluzioni condivise volte a restaurare la convivenza armonica, arricchendola di esperienza vitale e trasformando la vita di ogni membro coinvolto.
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Tuttavia, al di là di questi esempi preziosi ed isolati, viene da chiedersi quale sia nel più vasto mondo occidentale – dominato dall’individualismo, dal narcisismo e dalla mercificazione di ogni sentimento – il punto di equilibrio che si voglia raggiungere o restaurare. Nel mondo globalizzato, la generosa solidarietà che caratterizzava le società prevalentemente contadine del passato, o anche la solidarietà di classe tra prestatori d’opera del secolo scorso, hanno lasciato posto all’isolamento personale, favorito dalla tecnologia comunicativa, alla frammentazione interna dei nuclei produttivi, all’erosione della solidarietà e del mutuo sostegno.
La solitudine è divenuta il carattere distintivo dell’uomo contemporaneo, a partire dai giovani, che testimoniano con i loro disagi il disorientamento frutto della perdita di orizzonti condivisi e di modelli di riferimento credibili.
La giustizia restaurativa si occupa dei bisogni: della vittima, di chi infrange le regole e della comunità, coinvolgendo in modo attivo ogni persona accomunata dal misfatto nel processo di restaurazione dell’equilibrio infranto. Per la vittima si tratta di cessare di essere oggetto, divenendo soggetto attivo di giustizia e trasformazione, superando la logica retributiva e punitiva. Al centro non c’è il pur necessario processo penale, bensì la cura: di tutte le vittime del male prodotto da chi ha infranto le regole e turbato l’equilibrio della convivenza.
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Ecco quindi che è nel momento in cui si manifesta il misfatto che la società nel suo insieme è chiamata ad assistere la vittima nei suoi bisogni. Nell’immediato può trattarsi di cure mediche, sostegno psicologico, economico e scolastico, fornitura di un alloggio, assistenza legale, quelle necessità che sono a tutt'oggi poco considerate e ancor meno soddisfatte. E non dimentichiamo che la vittima ha bisogno, soprattutto, di verità e giustizia, che peraltro risentono dei tempi lunghi della giustizia penale e non soddisfano le necessità nel momento del trauma.
Al centro non c’è il necessario processo penale, bensì la protezione di tutte le vittime dal male causato da chi ha infranto le regole e turbato l’equilibrio della convivenza
Il bisogno di cura vale sia per la vittima sia per colui che ha commesso il misfatto, poiché anche quest’ultimo necessita di assistenza e sostegno affinché possa assumersi le sue responsabilità, prendere consapevolezza del danno prodotto, definire le sue obbligazioni e maturare coscienza della necessità di tentare, nel limite delle sue possibilità, di retribuire la vittima e la collettività per il danno causato.
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Ed è qui che si apre lo spazio per l’intervento delle vittime nel processo restaurativo. Nessuno più della vittima, perlopiù indiretta e surrogata, ha il potere di illuminare colui che ha prodotto il misfatto, esponendogli la sua sofferenza, che diviene macigno sulla coscienza del responsabile di infrazioni. La vittima ha la possibilità di evolvere da un vissuto di sterile risentimento verso una pratica restaurativa, dando il suo contributo generoso alla ricucitura dello strappo sociale prodotto, vedendo riconosciuta la propria identità e sofferenza, raccontando la propria verità e realizzando il riconoscimento umano del colpevole.
Nessuno più della vittima ha il potere di illuminare colui che ha prodotto il misfatto e ha rotto l’equilibrio sociale, esponendogli la sua sofferenza, che diviene macigno sulla coscienza del responsabile
È una strada difficile e travagliata, ma al tempo stesso l’unica in grado di produrre frutti nelle relazioni umane lacerate. È in questo modo che la vittima, liberata dal principio di ritorsione, può contribuire alla nascita di nuovi uomini e nuovi cittadini, aumentando il benessere e la sicurezza dell’intera società. La pratica restaurativa, che favorisce l’emancipazione reciproca, si iscrive dunque in un progetto terapeutico successivo all’irrogazione della pena, è ad esso complementare e non sostitutiva del processo penale.
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Per l’insieme di questi motivi credo che le iniziative volte a inseguire tardivi risarcimenti economici, benché animate da un senso di giustizia, parlino solo la lingua retributiva e siano prive di qualsivoglia valenza trasformativa. Di più, penso che ostacolino le pratiche restaurative, orientate al vero benessere della comunità.
Insistere sui risarcimenti economici congela le vittime nel loro vissuto, nel “diritto al rancore”, nella presunzione di un credito inesauribile e nella logica punitivo-retributiva, legandole indissolubilmente al loro passato, per il timore di affrontare sfide più evolute e sognare pratiche realmente utili. E al tempo stesso, i bisogni essenziali delle vittime continuano a restare inascoltati e inevasi nel momento della loro drammatica urgenza.
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