

Chi fornisce le armi a Israele? L'Italia prende tempo, ma intanto acquista da Tel Aviv

10 giugno 2025
L'affluenza ai referendum dell’8 e 9 giugno è stata chiaramente insufficiente: l’obiettivo, come riconosciuto da tutti, non è stato raggiunto. Si tratta di un dato evidente, ma che si inserisce in un contesto più ampio. L'Italia da anni registra una partecipazione molto bassa alle urne. Vorrei ricordare che alle ultime politiche si è superato a fatica il 60 per cento dell’affluenza, mentre alle europee non si è arrivati nemmeno al 50. Non va molto meglio con le regionali e le amministrative. In questo quadro, quindi, i dati del referendum sono coerenti con una tendenza registrata negli ultimi anni.
Non a caso, c’è chi – e io sono tra questi – propone di rivedere la norma costituzionale sul quorum. Oggi si richiede la partecipazione del 50 per cento +1 degli aventi diritto, ma forse sarebbe più realistico rapportare il quorum al numero dei votanti dell’ultima tornata politica. Se questa fosse la regola, il referendum appena svolto sarebbe risultato valido o, quantomeno, molto vicino al traguardo. È importante valutare i dati nel contesto. Nonostante il quorum non sia stato raggiunto, resta il fatto che l’obiettivo fissato dalla legge appare ormai anacronistico, lontano dalle abitudini elettorali attuali degli italiani.
In questo senso, la proposta avanzata dalla destra di rendere più difficile la convocazione dei referendum – ad esempio, limitando la raccolta firme digitale – va nella direzione sbagliata. Al contrario, andrebbe aperta una battaglia democratica per rendere il quorum più realistico e accessibile. In un’epoca in cui la democrazia rappresentativa mostra evidenti segni di crisi, sarebbe più saggio rafforzare gli strumenti di partecipazione diretta, no? Questo sarebbe un autentico esercizio democratico.
Detto ciò, il risultato del referendum resta motivo di seria preoccupazione. Non possiamo scambiare per vittoria quella che, in realtà, è una sconfitta. Colpisce soprattutto la scarsa partecipazione dei giovani, che avrebbero dovuto essere i protagonisti di questa battaglia. L’assenza di una loro mobilitazione indica una pericolosa assuefazione a regole ingiuste e una disaffezione ai valori fondamentali che erano in gioco, al di là della complessità tecnica dei quesiti.
Rinunciare a lottare per la sicurezza e la stabilità del lavoro significa, in fondo, rinunciare a essere parte attiva di una comunità
Il messaggio del referendum era chiaro: no alla precarietà nel lavoro, perché il lavoro non è una merce. Precarietà significa vita instabile, dignità compromessa. E poi la sicurezza: il diritto a non rischiare la vita nei luoghi di lavoro. Il fatto che questi temi non abbiano mobilitato le coscienze dimostra molte differenze rispetto al passato.
Call center: il nuovo contratto cancella diritti e tutele
C'è oggi una diffusa sfiducia nella possibilità di cambiare le cose. Mi preoccupa l’acquiescenza di fronte alla precarietà e all’insicurezza del proprio impiego. Eppure la nostra Costituzione fonda la democrazia proprio sul lavoro, inteso non solo come mezzo di sostentamento, ma come progetto di vita, come contributo individuale alla società. Rinunciare a lottare per la sicurezza e la stabilità del lavoro significa, in fondo, rinunciare a essere parte attiva di una comunità.
È vero che molti giovani oggi non hanno mai conosciuto i contratti stabili oggetto del referendum. Ma anche i loro nonni, che negli anni Settanta hanno lottato per conquistare alcuni diritti, partivano da condizioni simili. Certo, lo hanno fatto animati da un forte senso di solidarietà, sapendo che con il sindacato e alcune forze politiche era possibile cambiare le cose. È proprio questo senso collettivo che oggi sembra mancare e che mi allarma di più.
L’Italia continua a guardare al passato, ignorando che il futuro sarà multietnico e multiculturale
Un altro elemento che mi ha colpito negativamente è il risultato del quesito sulla cittadinanza, che ha registrato una percentuale di "sì" inferiore rispetto ai temi del lavoro. Non voglio farne una questione morale o legata solo all'accoglienza. Il punto è che l’Italia continua a guardare al passato, ignorando che il futuro sarà multietnico e multiculturale. Non esiste altra prospettiva. Se non permettiamo agli immigrati che vivono, lavorano, crescono qui di essere pienamente italiani, il nostro Paese non ha futuro. Questa arretratezza di pensiero è tanto pericolosa quanto la rassegnazione di chi rinuncia a lottare per i propri diritti.
Io nata in Italia ma trattata come una persona di serie B
Anche le differenze regionali riflettono lo stesso quadro. Al Sud si registra maggiore rassegnazione, meno presenza sindacale, meno luoghi di lavoro e dunque meno comunità dei lavoratori. È un dato sociale e culturale, all’origine delle disuguaglianze territoriali che continuano a pesare sul Paese. Anche questo tema dovrebbe essere affrontato con serietà.
Infine, è necessaria una riflessione politica su quanto accaduto. La destra ha politicizzato il referendum sin dall’inizio, invitando esplicitamente all’astensione o a non ritirare le schede. Tra questi promotori dell’astensionismo c’erano il presidente del Senato, la presidente del Consiglio e i principali esponenti del centrodestra. Una provocazione, quindi, partita da loro.
Quasi 15 milioni di persone hanno votato, nonostante l'invito contrario del governo. E i “sì” ottenuti superano i voti raccolti dal centrodestra alle ultime elezioni
Eppure, quasi 15 milioni di persone hanno votato, nonostante l'invito contrario del governo. E i “sì” ottenuti superano i voti raccolti dal centrodestra alle ultime elezioni. Questo significa che esiste un’Italia diversa da quella che loro pretendono di rappresentare. Un’Italia che ha voluto esprimersi. La vera domanda è se la sinistra sarà in grado di interpretare questa Italia.
Perché un altro fattore determinante del risultato è stata la divisione interna alla sinistra. Alcuni esponenti del Partito Democratico e di altre forze che aspirano a comporre una coalizione progressista hanno scelto di non votare o addirittura di votare no. È tempo di chiarire le posizioni. Lo scontro permanente tra la cosiddetta ala radicale e quella riformista non porta da nessuna parte: finché non si troverà una sintesi credibile, non sarà possibile né vincere le elezioni né governare con efficacia.
Invece, oggi assistiamo solo a nuove polemiche, sterili e improduttive. Il governo proseguirà per la sua strada. Nel Partito Democratico ci saranno discussioni, ma non è chiaro se porteranno finalmente a un rafforzamento dell’identità politica del futuro centrosinistra. Sarebbe auspicabile, perché il fallimento del referendum non cancella i problemi.
Il lavoro in Italia resta povero, instabile, mal pagato. La disoccupazione e la povertà colpiscono milioni di persone. E cresce la disaffezione, una rassegnazione che sconfina nella disperazione. Ma su questa base non si può costruire il futuro della democrazia. Perché la democrazia vive solo se le persone credono nella possibilità di cambiare, se partecipano, se lottano. Ed è proprio da qui che bisogna ripartire.
Crediamo in un giornalismo di servizio di cittadine e cittadini, in notizie che non scadono il giorno dopo. Aiutaci a offrire un'informazione di qualità, sostieni lavialibera
La tua donazione ci servirà a mantenere il sito accessibile a tutti
Crisi idrica, incendi, mafie e povertà: chi guadagna e chi si ribella nella Sicilia delle emergenze
La tua donazione ci servirà a mantenere il sito accessibile a tutti