Sandro Busso
Sandro Busso

Il sociologo Busso: "Lavorare meno si può"

L'automazione non ha migliorato la nostra vita, perché i profitti si accumulano nelle mani di pochi. Ma sono possibili nuove e diverse forme di redistribuzione del reddito, basta volerle. Intervista al sociologo Sandro Busso

Elena Ciccarello

Elena CiccarelloDirettrice responsabile lavialibera

21 dicembre 2023

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Ho dedicato l’intero weekend a leggere un libro in cui è dimostrato che non avrei dovuto farlo. Non così, non perché ero incalzata da un impegno di lavoro. Che io sia stata soddisfatta della lettura e appagata dai contenuti sono consolazioni – vere – che però nascondono, prima di tutto a me stessa, un obbligo cui in realtà non avevo la possibilità di sottrarmi. In ogni caso la soluzione non sarebbe stata neppure quella di astenermi. Il libro lo spiega: la risposta migliore è iniziare a immaginare una società in cui questo tipo di sforzo non sia più richiesto. È partecipare a una battaglia politica e culturale che restituisca valore al tempo di vita, a partire da una diversa redistribuzione del reddito.

Il volume in questione è Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche (Edizioni Gruppo Abele) di Sandro Busso, professore di Sociologia dei processi politici dell’Università di Torino. Testo che ricostruisce con chiarezza ed efficacia la genesi dell’iperlavoro e la trappola in cui siamo caduti. La precarietà e l’insicurezza ci costringono a "lavorare troppo", e dove non interviene il bisogno trova spazio un’etica secondo cui "lavorare sodo" è considerato motivo di grande merito. Non è sempre stato così e gran parte di questa storia, secondo Busso, affonda le radici in una promessa tradita.

Il secolo scorso è stato un susseguirsi di profezie su forme di automazione che avrebbero sgravato le persone dal lavoro, regalandoci un futuro radioso. Purtroppo non è andata così: produttività e offerta sono aumentate, ma non i salari né il tempo libero

Busso, a quale promessa fa riferimento?

Cento anni fa e, ancora prima, a partire dal Settecento, si è cominciato a intravedere nel processo di automazione la possibilità di una vita libera dal lavoro inteso come impegno logorante, abnorme e dettato da condizioni economiche difficili. Nel 1930, John Maynard Keynes scriveva un articolo divenuto famosissimo, intitolato Opportunità economiche per i nostri nipoti, in cui immaginava che da lì a un secolo avremmo lavorato una dozzina di ore alla settimana e sarebbe stato compito della società distribuire in modo equo "il poco lavoro che ancora rimane".

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Il secolo scorso è stato un susseguirsi di profezie sull’idea di un lavoro che sarebbe diventato più produttivo, di macchine e forme di automazione che avrebbero sgravato le persone regalandoci un futuro radioso. Purtroppo non è andata così: produttività e offerta di lavoro sono realmente aumentate, ma ore lavorate e salari non hanno avuto trasformazioni altrettanto evidenti. Non sono scese le prime, né sono cresciuti i secondi.

Perché l’automazione non si è rivelata amica di lavoratori e lavoratrici?

Lo sviluppo tecnologico non ha portato benefici a chi lavora, dato che l'ascesa del neoliberismo ha concentrato i maggiori proventi nelle mani di pochi. I profitti accumulati nella distanza tra salari e produttività hanno soddisfatto esclusivamente gli interessi delle élite e non sono serviti a regalarci una vita migliore. Piuttosto hanno amplificato le distanze sociali.

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Quindi dovremmo dire basta ad automazione e intelligenza artificiale?

Dico solo che per non trasformarsi da sogno a incubo l’aumento della produttività deve essere governato.

Quando ha iniziato a crescere il numero di ore lavorate?

È possibile individuare il picco dell’orario lavorativo al termine della prima rivoluzione industriale e dunque più o meno a cavallo della metà dell’Ottocento. Voglio ricordare almeno due ragioni di questo aumento: da un lato lo sviluppo tecnologico, cui abbiamo già accennato, dall’altro il fiorire del capitalismo, che ha fatto saltare l’idea di un lavoro esclusivamente finalizzato a soddisfare un tetto di necessità. Chi possiede i mezzi di produzione non ha più posto limiti all’accumulazione, mentre sono stati indotti bisogni crescenti nei singoli, per alimentare la domanda e il circolo. Toccato l’apice nella prima metà dell’Ottocento, si è registrata una progressiva riduzione dell’orario lavorativo. Ma è tornato a salire proprio negli ultimi decenni.

Se il potere d’acquisto dei salari scende: o sono costrette a lavorare più persone, oppure le stesse dovranno lavorare di più. Da almeno 40 anni sono aumentate entrambe le categorie

Perché proprio adesso?

A conclusione degli anni Settanta, con la fine del fordismo, il modello della famiglia monoreddito è entrato in crisi perché i salari non sono più stati sufficienti a mantenere una condizione di vita dignitosa. E se il potere d’acquisto dei salari scende, o sono costrette a lavorare più persone, oppure le stesse dovranno lavorare di più. Da almeno 40 anni sono aumentate entrambe le categorie. In Europa non ce ne siamo accorti subito, perché il lavoro si era intanto spostato in altre zone del mondo con la delocalizzazione produttiva. Adesso è visibile anche da noi. Dal 2008 sono andate crescendo le disparità salariali e sono aumentati i working poor (lavoratori poveri, ndr), come effetto di fattori complessi, riassumibili nell’indebolimento dei compensi e nella discontinuità e flessibilità del lavoro.

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C’è anche una dimensione culturale che favorisce l’iperlavoro?

Siamo stati educati a una cultura che colloca il lavoro al centro delle nostre vite. Ma in realtà si tratta di un’idea storicamente recente. Nella Grecia antica, ad esempio, il lavoro dipendente era associato alla condizione di schiavitù. Lo storico Daniel Rodgers sostiene che è soprattutto a metà del XIX secolo che si assiste a un processo di "astrazione», in cui tutti i lavori cominciano a essere considerati nobili in se stessi e non per ciò che producono. Lavorare è ciò che dà valore a una persona. Tuttavia l’etica del lavoro diventa progressivamente anche uno strumento di disciplina. Ha la funzione, tra le altre, di rendere desiderabile ciò che per secoli avevamo considerato degradante.

Il sogno della fine del lavoro non è solo desiderio di ozio, che qui va comunque inteso nell’accezione romana di tempo dedicato alla cura dello spirito, ma anche e soprattutto un sogno di giustizia sociale

Quindi non siamo folli e viziosi se desideriamo rallentare?  

Meglio capirci: il sogno della fine del lavoro non è solo desiderio di ozio, che qui va comunque inteso nell’accezione romana di tempo dedicato alla cura dello spirito, ma anche e soprattutto un sogno di giustizia sociale. Fin dalle origini la questione della sostituzione del lavoro umano è inestricabilmente legata al tema delle disuguaglianze.

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Siamo ancora nella fase avviata dalla seconda rivoluzione industriale?

Se prima lavorare tanto ci restituiva una ricompensa economica o sociale di fronte alla collettività, oggi veniamo cresciuti all’idea che le ricompense ce le diamo da soli. Il lavoro è ciò che permette di esprimerci

C’è un passaggio complicato alla condizione attuale, quella che una studiosa bravissima di nome Kathi Weeks chiama l’etica del lavoro post-industriale: una dimensione di gratificazione individualizzata. Se prima lavorare tanto ci restituiva una ricompensa economica o sociale di fronte alla collettività, oggi veniamo cresciuti all’idea che le ricompense ce le diamo da soli. Il lavoro è ciò che permette di esprimerci. Vi faccio qualche esempio: conosco diverse persone che lavorano in realtà cooperative e associazioni del sociale, che vengono pagate con stipendi oggettivamente molto bassi, per i quali la gratificazione immateriale di costruire qualcosa che si ritiene importante, di avere un ruolo positivo nella società, si sostituisce alla dimensione del salario. Le professioni creative, il precariato cognitivo, sono tutti impieghi che funzionano in questo modo. Se combiniamo questa dimensione con le esigenze di lavorare molto per necessità economiche, capiamo bene che ci troviamo in una trappola pericolosa. Ma forse proprio questa dimensione sta iniziando a mostrare qualche crepa.

Grandi dimissioni?

Esatto, il fenomeno indica un trend in crescita da anni, ben prima della pandemia, che può essere associato a uno stato di salute del mercato del lavoro. La sua particolarità è che tali dimissioni avvengono anche in assenza di alternative. Ci tengo a fare una precisazione: per non apparire come semplici tentativi di fuga, cinismo e disillusione, i casi di rifiuto del lavoro, o le battaglie per lavorare meno e meglio, devono essere combattute a livello collettivo e non individuale. Questa idea del lavoro condiziona anche il modo di concepire il welfare. Basti pensare alla descrizione del percettore del reddito di cittadinanza, spesso giudicato poco più di un fannullone a carico della collettività.

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Oggi il paradigma non è più rispondere a un bisogno, ma costruire forza lavoro nella forma dello stage, del tirocinio, della borsa lavoro. Il welfare non sembra più dedicato a chi per varie ragioni non lavora, perché non diventi socialmente pericoloso. Rischia così di tradursi in una misura che produce manodopera a basso costo, e quindi piace alle imprese, ma non alle persone che lo ricevono.

Per concludere, è possibile lavorare meno? 

Ci sono le condizioni per farlo, questa è la buona notizia. Ma lavorare meno è un traguardo che richiede una trasformazione radicale che va ben oltre i confini del mercato del lavoro. Anzitutto occorre intervenire sui salari, per fare tornare l’impiego uno strumento che redistribuisce ricchezza. Questa è la precondizione di ogni possibile mutamento perché, è ovvio, se non riesco a vivere con il mio lavoro difficilmente posso pensare di lavorare meno.

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E come si tutelano i salari più bassi? Con la contrattazione o il salario minimo. L’Italia è uno dei sei (a fronte dei 21) paesi europei che ha scelto la prima via, bocciando il salario minimo. Eppure la sua introduzione potrebbe limitare il sistema delle privatizzazioni ed esternalizzazioni, agendo come forma di contrasto alle disuguaglianze, soprattutto di genere e di cittadinanza. Ne beneficerebbero soprattutto donne, Sud e stranieri. Potrebbe segnare un cambio di rotta nel rapporto tra lavoro e politiche sociali e sgretolare il peso della dimensione immateriale della retribuzione.

Cos’altro, oltre a intervenire sui salari?

È indispensabile un cambiamento di paradigma che disinneschi i meccanismi di autosfruttamento di cui parlavamo prima. E poi una dimensione a me molto cara, un’idea di redistribuzione oltre il lavoro, che si fonda sulla semplice esistenza, fuori dal meccanismo di condizionalità secondo cui per ottenere un aiuto devo fare qualcosa. È la ragione del titolo monco del mio libro, che non è "lavorare meno, lavorare tutti", ma solo "lavorare meno". Cosa succederebbe se la redistribuzione del reddito fosse realmente universale, ovvero se anziché solo lavorare meno, grazie alla crescita di produzione legata alla tecnologia, non lavorassimo tutti?

Non è un’idea recente, risale addirittura a Thomas More e alla sua Utopia e ancora prima all’Atene di Pericle, ma ha avuto sostegno nel tempo anche da altre istituzioni e figure, come Martin Luther King. Per le caratteristiche di universalità e di assenza di condizionalità (è un diritto e quindi non va meritato), si tratta di una riforma radicale che non mira a combattere la povertà, ma a garantire un livello zero, uguale per tutti, di dignità e libertà. Perché non redistribuire senza nulla in cambio le ricchezze ricavate dallo sfruttamento di risorse naturali? O quelle che derivano dal tempo di vita che ciascuno di noi trascorre sui social network? L’idea di un reddito universale si associa a un modello di società in cui è possibile dire no ai cattivi lavori, permettendo alle persone di contrattare di più sul valore del proprio tempo. Per aprire questa breccia dobbiamo però anche superare l’idea che se non lavoro non esisto, che se lavoro solo 6 ore non sono degno. Anche se è quello che ci hanno insegnato, non è detto debba essere così per sempre

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