(Foto di Moritz Kindler/Unsplash)
(Foto di Moritz Kindler/Unsplash)

"Vedo scene orribili, ma voglio fermare i pedofili". Parla un agente sotto copertura della polizia postale

Per intercettare gli scambi di materiale pedopornografico la polizia postale ricorre agli infiltrati. Uno di loro ha accettato di raccontare il suo lavoro

Andrea Giambartolomei

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

1 settembre 2025

All’inizio aveva detto di no. Preferiva tenersi alla larga da chat e forum per lo scambio di immagini di nudi e abusi su minori. Certo, la missione – fermare i pedofili – era nobile, ma aveva avuto da poco una figlia e la materia lo turbava. Tuttavia, qualche anno dopo, di fronte alla nuova proposta ha accettato la sfida e da allora non ha smesso. Lo chiameremo Frank, perché è meglio non rivelare il suo nome e neanche il soprannome. Da trentadue anni è in polizia, da quindici lavora alla polizia postale e da tredici opera come "agente sotto copertura" alla ricerca di pedofili. Lo incontriamo in un ufficio del Centro operativo sicurezza cibernetica (Cosc) del Piemonte, uno dei diciotto poli in Italia, in presenza della dirigente Assunta Esposito e del commissario Martino Brunetti.

Frank, come ha cominciato a lavorare da infiltrato?

La mia responsabile mi ha chiesto se volevo fare l’agente sotto copertura, ma avevo appena avuto una bambina e non me la sono sentita. Poi a distanza di tempo me lo ha chiesto di nuovo e a quel punto ho detto: "Guardi dottoressa, facciamo una prova per un paio di mesi e le darò una risposta definitiva ". È così che ho cominciato.

Da allora non ha mai smesso?

"Ho cominciato a chattare con una persona che, ho saputo successivamente, i miei colleghi inseguivano da anni. Siamo arrivati allo scambio di materiale e all’identificazione, lo abbiamo perquisito e arrestato"

Per mia fortuna no. Ho cominciato a chattare con una persona che, ho saputo successivamente, i miei colleghi inseguivano da anni. Siamo arrivati allo scambio di materiale e all’identificazione, lo abbiamo perquisito e arrestato. In quel momento ho provato una certa soddisfazione, avevo visto scene orribili ma ero riuscito a trovare chi deteneva i file e li scambiava. Ero soddisfatto e al rientro in ufficio ho detto alla mia superiore: "Ok, voglio lavorare così".

Ha dovuto seguire dei corsi per sviluppare competenze specifiche per il contrasto alla pedopornografia?

No, mi sono affiancato ai colleghi che già facevano questo lavoro. Loro mi hanno instradato, spiegandomi il linguaggio da usare. L’esperienza conta molto: inizi, sbagli una volta, perdi le tracce del sospettato, poi capisci l’errore e ti adegui. Serve anche capire chi hai dall’altra parte e cosa vuole, adattarsi alle caratteristiche del materiale che lui ricerca.

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Dove avviene il contatto?

Su semplici social network, in altri casi sul dark web. Molto dipende dalla bravura dell’operatore, bisogna creare fiducia e condurre chi sta dall’altra parte fuori dai circuiti anonimi, portandolo a commettere un errore.

Ad esempio, usando Whatsapp per risalire al numero di telefono?

Chiediamo di aggiungerci ai loro contatti e talvolta il numero diventa visibile. Oppure li convinciamo a mandare una mail o usare altre piattaforme, l’importante è che il suo profilo passi in chiaro.

Come trovate i luoghi virtuali di scambio del materiale?

Con un monitoraggio a tappeto. A volte arrivano delle segnalazioni, mentre quando si fanno le perquisizioni è possibile trovare social e gruppi riservati che non conoscevamo. Per accedere a questi gruppi serve passare una sorta di selezione.

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Come fate?

Ai nuovi utenti gli amministratori chiedono del materiale inedito, serve capire il “gusto” dei gestori per entrare nella loro cerchia. Molti sono gruppi privati in cui si accede per invito, spesso troviamo queste persone in gruppi con migliaia di utenti. Chiedono le prime immagini e se vedono che riesci a fornire quanto vogliono, ti invitano nei gruppi ristretti che amministrano, dove a volte si trova il reale pedofilo.

Per agire sotto copertura serve creare delle storie personali finte?

Agenti della polizia postale al lavoro
Agenti della polizia postale al lavoro
"Utilizziamo moltissime identità. Possiamo essere un maschio adulto o una donna, perché in certi gruppi cercano madri con figli e chiedono loro le foto"

Utilizziamo moltissime identità. Possiamo essere un maschio adulto o una donna, perché in certi gruppi cercano madri con figli e chiedono loro le foto. Creiamo personaggi che teniamo a lungo, perché a distanza di tempo potremmo ritrovare la stessa persona a cui fornire le informazioni date in precedenza.

Quindi per il personaggio fittizio serve una certa coerenza.

Sì, ad esempio alcuni interlocutori chiedono informazioni sul lavoro e bisogna avere una presenza online coerente. Uno dei miei personaggi era impiegato nella ristorazione, quindi lavorava fino a tardi e la mattina dormiva. I personaggi che inventiamo devono essere credibili. Non avete certamente orari d’ufficio. La maggior parte di queste persone si collega la sera, sul tardi, quando il resto della famiglia dorme e loro possono stare più tempo al computer e al telefono. Magari chiedono un appuntamento in rete e in quel caso occorre organizzarsi.

Siete mai stati scoperti?

È capitato che qualche utente faccia una battuta del tipo: "Non è che sei della polizia? ". Noi rispondiamo: "Non è che il poliziotto sei tu?" e finisce lì. Molti hanno dei sospetti e non cliccano sul materiale scambiato perché temono di essere identificati o che nei file possa esserci qualcosa.

C’è un momento in cui vi ritrovate di fronte alle persone indagate?

Capita durante le perquisizioni o gli arresti. Sono persone di tutti i tipi: il medico, il prete, l'impiegato...

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Come reagiscono gli indagati quando li perquisite?

Qualcuno non si rende conto della gravità, molti si chiedono: "Cosa ho fatto? Ho solo preso delle foto dalla rete e le ho condivise". Allora spieghiamo loro che per realizzarle quelle immagini qualcuno ha abusato di un minorenne, e allora capiscono. C’è perfino chi alla fine della perquisizione o dopo l’arresto ci ringrazia perché lo abbiamo liberato da un peso.

Cosa prova a indagare pedofili e persone che scambiano materiale con scene di abusi su minori?

"Bisogna gestire la rabbia nel modo giusto. L'obiettivo è identificare queste persone e fermarle il prima possibile per proteggere le vittime"

Certamente rabbia, ma bisogna gestirla nel modo giusto. L'obiettivo è identificare queste persone e fermarle il prima possibile per proteggere le vittime.

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La visione delle immagini vi turba?

Nel materiale che scambiamo usiamo immagini meno forti, a volte ci soffermiamo sui dettagli dell’ambiente circostante per cogliere indizi. Notiamo una foto sullo sfondo, proviamo a catturare i particolari e a scavare. La squadra con cui lavoro è di supporto, a volte basta una battuta per alleggerire. Non cambierei il mio gruppo con nessun altro.

È mai successo che un indagato provasse vergogna?

È capitato una volta, perquisendo un ragazzo che aveva dei problemi. Ricordo che lo abbiamo tranquillizzato, parlando a lungo con lui. Il giorno dopo abbiamo appreso che nella notte si era tolto la vita, lasciando alcune lettere. Il suicidio ci ha traumatizzato, gli psicologi si sono subito messi a disposizione della squadra, aiutandoci a superare quel momento. Usiamo molta delicatezza, non aggrediamo e non colpevolizziamo, cerchiamo sempre di tranquillizzare le persone coinvolte.

Invece con le vittime come agite?

Quando andiamo a perquisire adulti che sappiamo vivere con le vittime dei loro abusi, ci accompagnano gli psicologi, sono loro che se ne occupano.

A casa parlate del vostro lavoro?

La mia famiglia sa il minimo indispensabile. Quando viene pubblicata la notizia degli arresti magari ne parliamo, ma senza entrare nei particolari. Sono informazioni forti per noi, figurarsi per chi non fa questo mestiere. Tra i colleghi della polizia c’è chi dice: "Che fegato che avete, per fortuna ci siete voi".

Da lavialibera n° 34, Il giornalismo che resiste

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