
Nelle mani di pochi: chi controlla l'informazione in Italia? L'infografica

Marco PanzarellaRedattore lavialibera


24 ottobre 2025
Tre club di calcio, due di serie C e uno di serie B, nel giro di pochi mesi sono stati commissariati per infiltrazioni mafiose nei loro affari. Una tripletta mai vista. Prima il Foggia, a maggio, poi il Crotone a settembre e ora, martedì 21 ottobre, la Juve Stabia, di Castellammare di Stabia. Un quadro fosco tra le compagini sportive e i legami con la criminalità organizzata locale, che sia la società foggiana, la ‘ndrangheta o la camorra. Potrebbero non essere sole. La Direzione nazionale antimafia “ha la convinzione profonda che analoghi provvedimenti riguarderanno anche altre società in futuro – ha detto il procuratore Giovanni Melillo martedì –: il quadro è davvero allarmante e non riguarda solo le regioni dove tipicamente sono radicate le mafie e non riguarda solo il calcio”.
“Il condizionamento dell’operato di una società di calcio è un meccanismo molto allettante per le organizzazioni mafiose, perché consente non soltanto di espandere la propria influenza, ma anche di acquisire consenso sociale”Giovanni Melillo - Procuratore nazionale antimafia
Lo stesso magistrato, il 21 giugno 2023, davanti alla Commissione parlamentare antimafia spiegava che “il condizionamento dell’operato di una società di calcio è un meccanismo molto allettante per le organizzazioni mafiose, perché consente non soltanto di espandere la propria influenza, ma anche di acquisire consenso sociale”. Un fenomeno, proseguiva, diffuso anche al Nord, dove “ci sono significativi indici di controllo di ‘ndrangheta su società persino di serie inferiori, società di calcio nell’Italia settentrionale, alcune dal nome una volta glorioso”, mentre al Sud il fenomeno “è estremamente radicato nel tempo”, ma in generale “largamente sottovalutato perché a lungo è prevalsa la logica del contenimento dei pericoli per l’ordine pubblico all'interno degli stadi, ma intanto è cresciuta una capacità delle organizzazioni mafiose di piegare gli eventi sportivi a fini criminali”.
Questi meccanismi per sfruttare la ricca economia del calcio con guadagni illeciti e relazioni prestigiose sono spiegati con chiarezza nei decreti con cui i tribunali di Foggia, Catanzaro e Napoli, con le loro sezioni per le misure di prevenzione, hanno stabilito l’amministrazione giudiziaria delle società sportive, in base al quale per un anno un professionista nominato dai giudici affianca i manager dei club con l’obiettivo di eliminare i legami con le organizzazioni mafiose, recuperare l’azienda e adeguarla alle regole del mercato, fino a quel momento falsate dalle intimidazioni.
La Juve Stabia è "fortemente condizionata dalle consorterie criminali di stampo camorristico egemoni nel comune di Castellammare di Stabia e paesi limitrofi, in primis dal clan D’Alessandro”
"Gli spostamenti della squadra, la sicurezza, il beveraggio, le gestione dei biglietti: tutto era nelle mani della camorra", ha affermato il procuratore capo di Napoli, Nicola Gratteri, per definire la situazione di Castellammare di Stabia. Per questo motivo martedì 21 ottobre è stata commissariata la Juve Stabia, che milita in serie B e l’anno scorso ha disputato i play-off per la promozione in serie A, perdendo in semifinale. L’11 settembre scorso, in maniera congiunta, la Dna, la procura e la questura di Napoli hanno chiesto al tribunale partenopeo l’amministrazione giudiziaria della società sportiva Juve Stabia srl, presieduta da Andrea Langella, perché ci sono abbastanza indizi per ritenere che l’attività economica e imprenditoriale “sia fortemente condizionata dalle consorterie criminali di stampo camorristico egemoni nel comune di Castellammare di Stabia e paesi limitrofi, in primis dal clan D’Alessandro”.
Nel decreto, i giudici ricordano che nel tempo si sono già avvicendati presidenti “contigui e/o proni al clan”. Negli anni Ottanta c'era Renato Raffone, consuocero del boss Luigi D’Alessandro ed esponente di punta del clan, uomo capace di tessere legami coi colletti bianchi. Secondo i collaboratori, anche alcuni dei patron più recenti avrebbero avuto legami con la criminalità e pagato il pizzo. “Oggi, pur in presenza di un presidente – Langella Andrea – ritenuto lontano dalle logiche criminali, le indagini consentono di affermare che essa appare fortemente condizionata dai sodalizi”.
L’influenza della camorra emerge nella gestione del servizio di biglietteria, della sicurezza dello stadio, della vendita di bevande, delle pulizie dello stadio, del trasporto della squadra e di altri ambiti ancora. Per questo i magistrati hanno commissariato la Juve Stabia affinché siano rivisti i rapporti con le imprese “satelliti” del sistema calcio e giovedì la prefettura di Napoli ha trasmesso undici provvedimenti interdittivi antimafia per fermare gli affari di alcune società.
Per cominciare, le indagini della polizia hanno rivelato che molti rivenditori di biglietti, quando emettevano gli abbonamenti o i tagliandi, alteravano i dati anagrafici inseriti nel sistema per favorire l’ingresso di persone pregiudicate o destinatarie del Daspo (divieto di accesso alle manifestazioni sportive), “molti dei quali contigui al clan D’Alessandro”. Tra i casi citati c’è quello del capo ultras Emanuele Tremante: “Già leader del tifo organizzato e vicino a esponenti apicali del clan, ha sottoscritto un abbonamento dichiarando una data di nascita errata”. Molti biglietti venivano ceduti gratuitamente a pregiudicati e uomini del clan. Per i magistrati, è difficile che i vertici della società sportiva non ne fossero al corrente. Anzi, fanno notare nel decreto, ad assistere alle partite casalinghe dalla “Sala Ospitality” c’era un uomo di fiducia del presidente Langella, Ignazio Avitabile, fratello di Giovanni Battista detto “o’ tuppillo”, pluripregiudicato legato al clan D’Alessandro.
Ultras e mafie. Le tifoserie come specchio della società
Alcuni pregiudicati legati alla camorra lavoravano nella ditta che vende bevande dentro lo stadio, intestata a incensurati. “Persino i servizi di pulizia dello stadio sono in mano alla camorra”, attraverso la società del marito di una delle figlie del boss Luigi D’Alessandro, Luigi Calabrese, “a sua volta elemento di spicco” del gruppo, capace di “mantenere buone relazioni con le consorterie limitrofe”, ad esempio assumendo la moglie di un capo del clan Gionta di Torre Annunziata. Un altro genero del boss D’Alessandro, Pasquale Esposito, è stato identificato dalle forze di polizia alla guida del pullman della squadra nel 2020 e 2021. Addirittura il servizio di ambulanze a bordo campo è “da sempre gestito dagli esponenti del clan, che lo intendono come un affaire proprio”, come hanno dimostrato più indagini sul settore.
Il controllo di una squadra di calcio – “peraltro lanciata verso il campionato della massima serie” – può essere una “cassa di risonanza della criminalità organizzata”, che era ed è presente nella curva attraverso gli ultras. Il pentito Pasquale Rapicano ha permesso di capire come i principali capi ultras siano legati al clan D’Alessandro e ai suoi alleati. D’altronde, come hanno verificato le autorità, sono stati esposti striscioni dedicati all’organizzazione e al suo capo, “Luigi o’ lione”. Nel decreto si legge che “a mantenere l’ordine all’interno dello stadio ci pensano gli esponenti della criminalità” e non le società incaricate dalla Juve Stabia del servizio di vigilanza, società che non hanno nemmeno i titoli (o meglio, la licenza del prefetto) per occuparsene: “Questa circostanza non può certamente essere sfuggita ai vertici della società”.
Ci sono inoltre forti dubbi sulla gestione del settore giovanile. Durante un colloquio del 21 agosto scorso, per esempio, Silverio Onorato, boss detenuto in regime di carcere duro, suggerisce al figlio Michele che aspira a giocare nella Juve Stabia di presentarsi al team manager Pino Di Maio specificando il rapporto di parentela. Tra i dirigenti del settore giovanile c’è poi un uomo, Roberto Amodio, che secondo il pentito Pasquale Rapicano “fa quello che dicono i D’Alessandro”, da cui sarebbe stato “imposto”. Amodio era stato coinvolto in vicende di scommesse clandestine e partite truccate in collaborazione con esponenti del camorra. Non è mai stato condannato, ma sanzionato disciplinarmente, con l’inibizione di tre anni, mentre il club aveva ottenuto una penalizzazione di tre punti nella stagione 2011-12. “La sua presenza stabile e non retribuita in seno al settore giovanile della società – a che titolo, vi è da chiedersi –, desta perplessità”.
La squadra di Crotone è stata “direttamente o quantomeno indirettamente a condizioni di intimidazioni e assoggettamento a opera di esponenti di articolate e ramificate cosche di ‘ndrangheta”
Passano gli anni, la proprietà resta la stessa, variano gli assetti criminali di Crotone, ma non il loro interesse sulla squadra di calcio che tra il 2016 e il 2018, con un’altra parentesi nella stagione 2020/21, ha giocato in serie A. E così, poche settimane prima del commissariamento della Juve Stabia, anche il FC Crotone è stato affidato alla gestione di un amministratore giudiziario, chiesto da Dnaa, procura e questura di Catanzaro, decretato dal tribunale calabrese il 16 luglio scorso e confermato il 20 ottobre.
La società appartiene ai fratelli Raffaele e Gianni Vrenna, rispettivamente ex e attuale presidente. Già nel 2015 la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro aveva chiesto il sequestro del club e la sorveglianza speciale per i Vrenna, ma il tribunale di Crotone e la corte d’appello di Catanzaro avevano rigettato la richiesta ritenendo i Vrenna estranei alla criminalità e vittime di intimidazioni.
Indagini successive, come l’inchiesta Glicine-Acheronte, hanno rivelato gli interessi criminali legati alla gestione del club, negli ultimi dieci anni sottoposta “direttamente o quantomeno indirettamente a condizioni di intimidazioni e assoggettamento a opera di esponenti di articolate e ramificate cosche di ‘ndrangheta”, come la cosca Vrenna-Corigliano-Bonaventura e poi la cosca Megna di Papanice, una frazione dei Crotone. Secondo i giudici c’è un “imponente e continuativo pericolo di infiltrazione”. Riassumendo, i Vrenna – nipoti di un vecchio esponente dell’omonima cosca – avrebbero pagato e offerto lavoro ad alcuni uomini delle ‘ndrine per mettere fine alle intimidazioni e garantirsi la tranquillità. Il boss Luigi Bonaventura, una volta pentito, ha raccontato come lui stesso avesse cominciato a occuparsi della security del Crotone Calcio, grazie ai suoi “contatti diplomatici” con altri criminali, che aggredivano calciatori e dipendenti e cercavano di entrare gratis allo stadio.
Ultras e mafie, al via il comitato della commissione antimafia
Per alcuni anni, a fornire gli addetti alla vigilanza per lo stadio Ezio Scida sono state due cosche, una crotonese e l’altra cosentina, che si dividevano l’affare a metà, fino a quando i padroni di casa hanno allontanato gli altri e a gestire tutto è arrivata la cosca Megna attraverso diverse ditte collegate. Quando l’allora presidente Raffaele Vrenna ha tentato di resistere alle richieste del clan, che voleva imporre la guardiania, è stato aggredito da due uomini incappucciati sul lungomare crotonese.
Ovviamente, anche qui i biglietti per le partite fanno gola, soprattutto quando il Crotone, arrivato in serie A, si scontra contro le grandi del calcio italiano. Gli affari con i biglietti, trasferte dei tifosi e prodotti della squadra sono in mano a un uomo della cosca Barilari-Foschini “con il benestare del clan egemone facente capo a Megna”, il cui boss Domenico “Micu” aveva interessi nell’ottenere e rivendere i tagliandi. Il nipote del boss, Cesare Carvelli, che è stato autista della squadra nella stagione 2016/17, garantiva “grazie ai rapporti intrattenuti con vari steward, l’accesso allo stadio a soggetti privi di regolare titolo di ingresso”, o per settori diversi o intestati ad altre persone.
Per il tribunale ci sono “sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio, da parte della FC Crotone srl, quantomeno dei settori specifici della security e della gestione degli ingressi allo stadio risulti profondamente influenzata dalla presenza invasiva delle cosche di ‘ndrangheta crotonese” e il club, sottoposto in maniera diretta o indiretta a intimidazioni e assoggettamento, sia finito “per agevolare l’attività illecita di soggetti indiziati di appartenenza alle articolazioni ‘ndranghetistiche locali” nel calcio, un settore che genera “importanti e non sempre tracciabili flussi monetari oltreché portatore di una particolare visibilità sociale”.
“La società Foggia Calcio è resa destinataria, tramite il Lombardi Marco, di una strategia intimidatoria e di condizionamento”
Anche in Puglia la Dnaa, insieme alla procura dauna e alla questura, hanno fatto luce sulle pressioni della criminalità sulla locale squadra di calcio, al fine di influenzarne le attività economiche e ottenerne dei guadagni. La situazione sembra comunque diversa dalle precedenti, perché gli inquirenti mettono l'accento non tanto sulle connivenze della società, ma le minacce capaci di influenzare le decisioni. Nella richiesta, si ricorda soprattutto la vicenda della tentata estorsione compiuta da un pregiudicato, Marco Lombardi, e dei suoi complici con il beneplacito della Società foggiana, cioè l’organizzazione criminale della città.
Lombardi, legato sentimentalmente a una donna che gestiva prima la biglietteria dello stadio e poi il negozio della squadra, voleva ottenere dal presidente Nicola Canonico un posto di lavoro e, quando l'imprenditore lo mette alla porta, il pregiudicato dà il via a una serie di atti vandalici, tra cui i danni alle auto di calciatori e dirigenti, un furto di materiale sportivo, scritte sui muri dentro lo stadio, e una dura campagna denigratoria contro il presidente stesso.
Spari e minacce al Foggia Calcio. Così l'uomo legato ai clan condizionava il club
Secondo il tribunale, “la società Foggia Calcio è resa destinataria, tramite il Lombardi Marco, di una strategia intimidatoria e di condizionamento” che “restituisce uno scenario di ingerenza della criminalità organizzata nell’impresa” perché Lombardi è vicino “ad ambienti criminali, in particolare ad esponenti di rilievo della batteria Sinesi-Francavilla, con cui intrattiene da tempo stretti e duraturi rapporti”.
La campagna attuata da Lombardi, fatta di minacce a giocatori e dirigenti e denigrazione della proprietà, “ha inciso sulla libertà di autodeterminazione del presidente Canonico, ingenerando in lui la consapevolezza di identificare il ruolo di un presidente non gradito ed il larvato timore di conseguenze pregiudizievoli tipiche appunto di determinati contesti mafiosi”.
Tra gli elementi che i procuratori e la polizia evidenziano per dimostrare l'ingerenza criminale nel Foggia Calcio, c'è la gestione del bar dello stadio in mano a una donna legata a uomini della Società foggiana. Secondo il tribunale, però, la questione merita di essere approfondita durante il commissariamento.
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