11 novembre 2021
Mafia nigeriana, il termine è ormai entrato nel linguaggio della cronaca, della politica e degli esperti di criminalità, a volte usata indistintamente per indicare non soltanto le organizzazioni criminali complesse, ma anche semplici criminali comuni in un calderone unico. Black axe, Eiye, Maphite e Vikings sono alcuni dei cults, gruppi criminali che nascono in Nigeria come associazioni segrete di studenti universitari, confraternite simili a quelle degli atenei statunitensi, nate però con l’obiettivo di combattere discriminazioni e abusi di potere prima e dopo la decolonizzazione. Col tempo, tuttavia, la loro “missione” è cambiata: sono diventati gruppi violenti che – con la diaspora nigeriana – si sono diffusi in tutto il mondo, in una rete di traffici di donne indotte alla prostituzione, droghe e denaro. In Italia queste organizzazioni hanno ottenuto un’etichetta, quella di mafia, che altrove non è stata data. “La criminalità nigeriana è oggi diventata la più forte, perché riesce ad avere articolazioni presenti quasi in tutte le regioni italiane e in tutti i Paesi dell'Europa – ha detto il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho in un’audizione parlamentare del novembre 2019 –; ha una proiezione nazionale e internazionale nel nostro Paese, con una base molto forte nel Paese di origine”. A farne le spese per primi sono gli appartenenti alla stessa comunità nigeriana, soprattutto le donne.
La Nigeria è lo Stato più popoloso dell’Africa occidentale e, nonostante sia ricco di risorse naturali (in particolare il petrolio), è anche tra gli Stati più instabili, corrotti e poveri: il reddito pro-capite annuo è di circa duemila dollari. La sua popolazione, poi, è molto giovane: il 65 per cento degli abitanti ha meno di 25 anni e l’età media è di 18 anni e mezzo. Il tasso di crescita, dato dal saldo di nascite e morti e dei movimenti migratori, è tra i più alti al mondo: di questo passo, considerano gli esperti, la popolazione potrebbe passare dai 186 milioni di persone del 2016 ai 392 milioni del 2050, diventando la quarta nazione più popolosa del mondo (Cia World Factbook).
Per secoli territorio diviso in più regni e imperi con base tribale e luogo strategico per gli interessi delle potenze europee, che esportavano risorse e usavano l’area come punto di partenza per la tratta degli schiavi verso le Americhe, la Nigeria è diventata una colonia inglese nel 1914 e ha ottenuto l’indipendenza il 1° ottobre 1960. Tra colpi di Stato militari, guerre civili e scontri etnico-religiosi (vedi la presenza dell’organizzazione islamista Boko Haram), il Paese è sempre molto instabile.
Durante la dominazione coloniale britannica, alla metà del secolo scorso, nelle università nigeriane sono nate confraternite studentesche segrete, chiamate cults, il cui scopo era contrastare la cultura europea, coloniale e razzista. Nel 1952 alla University of Ibadan, primo ateneo nigeriano fondato dalla University of London, sette studenti hanno fondato la confraternita dei Pyrates (anche chiamata National association of seadogs): tra di loro c’era Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986. Il gruppo voleva combattere le disuguaglianze in un’università in cui i figli delle élite nigeriane legate ai coloni inglesi avevano la meglio.
Col passare del tempo sono sorte altre confraternite. Nel 1963, sempre a Ibadan, è nata la Supreme Eiye Confraternity, meglio conosciuta come Eiye (“Uccelli”). Nel 1977 all’Università del Benin è stato fondato il Neo Black Moviment of Africa, anche chiamato Black Axe (“Ascia nera”), con l’obiettivo di contrastare le discriminazioni contro i neri. In quegli anni, però, i cults cominciano a trasformarsi, sia per l’accendersi delle rivalità tra di loro, sia perché, tra vari colpi di Stato e una guerra civile (quella in Biafra), gli eserciti vedono nelle confraternite una maniera per monitorare e ostacolare le associazioni studentesche e quegli accademici con le loro lotte per la democrazia. Per mantenere l’ordine, i golpisti forniscono soldi e armi ai cults.
Nel 1998 la Nigeria torna a essere governata dai civili e non più dai militari, ma le violenze non si fermano e anzi i partiti ricorrono ai servizi dei cults come security in un contesto di violenza politica. Nel 1999 i Black Axe si rendono responsabili di una strage all’interno dell’università di Ife-Ife: cinque rappresentanti degli studenti vengono uccisi. Nel 2001, dietro pressioni internazionali, il governo vieta la creazione e la partecipazione alle confraternite (con il “Secret cult and secret society prohibition bill”) punendola con la reclusione, ma i cults hanno proseguito le loro azioni violente: avrebbero provocato circa 1.863 decessi tra il 2006 e il 2014, sostiene l’Ufficio europeo di sostegno per l'asilo che ha inserito i cults tra le ragioni da tenere in considerazione quando si valutano le richieste di asilo politico da parte di nigeriani. Inoltre negli ultimi decenni, dall’Africa occidentale queste organizzazioni – anche attraverso le migrazioni – si sono diffuse nel mondo.
Nel 2020 in Nigeria molti cittadini hanno manifestato contro le violenze e gli abusi della polizia
Al 31 dicembre 2019 i cittadini nigeriani regolari residenti in Italia erano 117.809, pari al 2,2% del totale degli stranieri censiti (5.306.548), concentrati soprattutto in Emilia Romagna, Lombardia, Veneto e Piemonte, ma con presenze importanti anche in Campania e Sicilia. Da un rapporto del ministero del Lavoro del 2018 emerge che, tra le comunità extracomunitarie presenti in Italia, quella nigeriana è quella col più basso tasso di occupazione e il più alto tasso di disoccupazione: nonostante l’assenza di una fonte di reddito regolare, la comunità è capace di inviare in Nigeria quasi 75 milioni di euro di rimesse nel solo 2018, il doppio di quanto fatto nel 2016, stando ai dati della Banca d’Italia. “Si celano sicuramente anche i proventi delle attività illegali”, ipotizza la Direzione investigativa antimafia (Dia) in un focus dedicato alla criminalità nigeriana.
Nel 2003 la commissione parlamentare antimafia affronta “prudenzialmente” il tema trattandolo come “criminalità organizzata nigeriana, anche se va diffondendosi, almeno sui media, una più pesante connotazione semantica di ‘mafia nigeriana’”
Nella penisola si comincia a parlare della criminalità nigeriana tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila. Sono anni in cui cresce un clima di allarme sulla criminalità comune associato alle campagne contro l’immigrazione irregolare. Nella relazione annuale al parlamento del 1997 i servizi segreti segnalano la presenza di una forte criminalità nigeriana insieme ad altri gruppi stranieri, nella fattispecie russi e cinesi. Gli allarmi sulle organizzazioni criminali straniere in Italia diventano sempre più frequenti.
Nel 2001 il Dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, nella relazione al parlamento, illustra le caratteristiche della criminalità nigeriana senza utilizzare il termine mafia: “La criminalità nigeriana è presente a macchia di leopardo nel Nord Italia e in Campania” e si occupa soprattutto di tratta degli esseri umani, sfruttamento della prostituzione e traffico di droga. “I gruppi, in collegamento con la madrepatria, riciclano i proventi attraverso esercizi commerciali di generi etnici e rimesse ai familiari”, notano i funzionari del Viminale sottolineando un altro aspetto caratteristico: “Si avvalgono, nei confronti dei connazionali sfruttati, della forza d’intimidazione derivante dalla sensibilità dei nigeriani nei confronti delle superstizioni religiose (minaccia attraverso i riti voodoo)”. Comincia quindi a essere sottolineata una caratteristica importante per definire quella nigeriana come una mafia.
“Queste organizzazioni, indipendentemente dalla loro denominazione, si muovono con il metodo mafioso: con il metodo dell'intimidazione. Il metodo mafioso viene usato però nei confronti della loro stessa comunità”. In questo modo riesce a “tenere un controllo strettissimo nei confronti dei soggetti che appartengono alla loro comunità”.Federico Cafiero de Raho - Procuratore nazionale antimafia
Sempre nel 2001 il primo reparto della Dia avvia un progetto investigativo “e di prevenzione” chiamato “Juju”. Analizzando i dati sui reati commessi da nigeriani denunciati o arrestati, notava: “È indubbio che la maggior parte di questi migranti è alla ricerca di un lavoro e di migliori condizioni di vita, sovente richiamati da quelle ‘reti informali’ costituite da legami sociali formati sulla base della parentela, dell’amicizia e di un’origine comune”, però tra questi figurano altre persone “esclusivamente in cerca di occasioni di rapido arricchimento”, tra i quali coloro che “appartenevano, già in origine, ad organizzazioni criminali e sono emigrati per aprire nuovi mercati”. La commissione parlamentare antimafia della XIV legislatura compie un’analisi del fenomeno nella relazione annuale del 2003 sottolineando che “prudenzialmente” verrà trattato come “criminalità organizzata nigeriana, anche se va diffondendosi, almeno sui media, una più pesante connotazione semantica di ‘mafia nigeriana’”. I parlamentari mettono in evidenza “caratteristiche prettamente ‘mafiogene’”, come la forza del vincolo associativo “fondato sull’appartenenza familiare, tribale o etnica, e garantito dall’ubbidienza, dall’omertà dei sodali e dallo stato di forte intimidazione delle vittime”, il ricorso alla violenza e molti altri elementi il cui complesso, scrivono, “depone – nella misura in cui siano contemporaneamente presenti e integrati negli eventi in esame – per configurare un tipo di criminalità organizzata, che si pone, almeno, in modalità border line rispetto alla previsione normativa sulle associazioni di tipo mafioso, dall’art 416-bis c.p.”.
Passano pochi anni e arrivano anche le prime contestazioni di associazione a delinquere di stampo mafioso. A muoversi sono la Direzione distrettuale antimafia di Torino e quella di Brescia che con alcune operazioni tra il 2005 e il 2006 fanno emergere le attività italiane di due cults, i Black Axe e gli Eiye, accusando i componenti di 416-bis. Almeno per quanto riguarda i processi torinesi, l’ipotesi regge fino alla Cassazione nel 2010 con sentenze che faranno giurisprudenza. Non in tutti i casi giudiziari, però, gli appartenenti ai cults vengono condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso, ma per quella semplice (art. 416 c.p.).
In seguito sono emerse altre due grandi organizzazioni, i Maphite e i Vikings, e altre minori con i Bucaneers (attivi nel ghetto di Borgo Mezzanone, Foggia) e gli Aye. Dal litorale domitio in Campania e dalle città industriali del Nord come Torino e Brescia, analoghe organizzazioni sono riscontrate a Ferrara, Perugia, L’Aquila, Cagliari e arriva anche a Catania e nel cuore di Palermo. “Queste organizzazioni, indipendentemente dalla loro denominazione, si muovono con il metodo mafioso: con il metodo dell'intimidazione”, spiegava Cafiero De Raho ai parlamentari precisando che “il metodo mafioso viene usato però nei confronti della loro stessa comunità”. In questo modo riesce a “tenere un controllo strettissimo nei confronti dei soggetti che appartengono alla loro comunità”.
Le inchieste avvenute in questi quindici anni hanno dimostrato come i diversi cults siano caratterizzati da alcuni elementi comuni. Hanno organizzazioni ben strutturate con ruoli ben definiti. In molti casi l’affiliazione non è frutto di una scelta libera, ma è un’imposizione che passa attraverso riti iniziatici, spesso simili a quelli massonici, su cui si innestano dei tratti tribali. Gli Eiye, stando alle indagini, prevedono che si beva del sangue mischiato ad altre sostanze. Una delle cose da fare per entrare nei Black axe è sdraiarsi su un area a forma di bara delimitata da sette candele. Spesso sono riti violenti, prevedono fustigazioni o pestaggi, come delle cerimonie dei Maphite. Tutti i componenti hanno l’obbligo di pagare una “tassa” annuale che, come avviene nelle mafie italiane, serve a pagare l’assistenza legale di chi finisce nei guai con la giustizia e a mantenere i loro familiari. Spesso utilizzano un linguaggio in codice e usano, nelle cerimonie ufficiali, accessori che definiscono la loro appartenenza: azzurri per gli Eiye, gialli per i Black Axe, verdi per i Maphite e rossi per i Vikings.
La criminalità nigeriana si è specializzata in alcune attività:
tratta delle donne da indurre alla prostituzione. Moltissime donne, soprattutto della città di Benin e dei suoi paraggi (nello Stato di Edo), vengono reclutate da maman per essere mandate in Europa con la scusa di un lavoro, ma poi vengono costrette a vendersi con metodi subdoli, come i riti juju, simili al vudù, propri della cultura del popolo yoruba, che prevede un giuramento di fedeltà all’organizzazione e alla madam, pena la morte anche dei propri cari. Quanto guadagnato dalle donne serve a ripagare il viaggio, ma anche l’alloggio, il cibo e i vestiti;
favoreggiamento dell’immigrazione clandestina;
traffico di droga, sia su scala internazionale (con il metodo a grappolo), sia lo spaccio su strada. Le organizzazione usano la tecnica della “formica” (anche detto trasporto a grappolo o a pioggia), si avvalgono cioè di una moltitudine di individui che trasportano (spesso ingoiandole e custodendole nei loro stomaci) alcune dose di droga: sono chiamati ovulatori, bodypackers o muli;
truffe informatiche (chiamate anche truffe nigeriane o truffe del principe nigeriano);
sfruttamento del lavoro (caporalato, accattonaggio);
riciclaggio del denaro sporco.
"La strategia della sommersione che Cosa nostra oramai ha adottato da anni finisce per consentire anche a organizzazioni come quella nigeriana di poter operare indisturbata"Federico Cafiero de Raho
C’è un aspetto interessante rivelato dalle indagini. Questa nuova criminalità organizzata per poter agire deve scendere a patti, almeno per spartirsi aree e ambiti di azione con la criminalità nostrana. “I nigeriani, generalmente, convivono con le altre realtà criminali, siano esse autoctone che extracomunitarie, evitando violenze e assumendo un basso profilo di esposizione, pur a fronte della conduzione di elevati business illeciti”, annotavano i parlamentari della commissione antimafia già nella relazione del 2003. All’epoca era possibile sapere che in Campania, “lungo il litorale Domizio, un insediamento nigeriano storicamente significativo, dedito allo sfruttamento della prostituzione e al traffico di stupefacenti. Tali attività sarebbero gestite in modo autonomo rispetto alla locale camorra, che sembra tollerare il fenomeno, sfruttandone anzi a volte la collaborazione per l’esecuzione di reati minori”. Anzi, “è facile inferire che tale delinquenza debba avere necessariamente qualche collegamento con i clan camorristici presenti sul territorio, in particolare con i casalesi”.
Eppure i conflitti tra camorristi e africani sono stati diversi. Già nel 1986 erano stati registrati ferimenti di cittadini centro-africani sulla via domitiana. Il 24 aprile 1990 a Pescopagano, vicino a Castelvolturno, un commando del clan La Torre su mandato del clan Bardellino uccide cinque persone e ne ferì sette per affermare la propria superiorità nello spaccio. Il 18 settembre 2008 a Castelvolturno uomini del gruppo Setola uccidono sei ghanesi e feriscono un connazionale. Un mese prima altri italiani dello stesso clan feriscono a colpi di arma da fuoco cinque nigeriani. In quest’area le operazioni contro i clan di camorra hanno creato uno spazio che è stato riempito dalla mafia nigeriana che è stata così capace di affrancarsi, agire liberamente e prendersi anche ambiti prima a lei esclusi, come le estorsioni e le minacce agli autoctoni.
Un altro esempio di apparente coesistenza arriva da Palermo, dove – ha rivelato l’indagine chiamata Black axe – alcune storiche famiglie mafiose del mandamento Porta Nuova hanno accordato ai nigeriani uno spazio autonomo per i loro traffici (spaccio e prostituzione) nel quartiere Ballarò. “Il fatto che non avvengano reati di sangue e che non ci siano scontri dimostra che un accordo c’è stato e, ancora una volta, che la strategia della sommersione che Cosa nostra oramai ha adottato da anni finisce per consentire anche a organizzazioni come quella nigeriana di poter operare indisturbata, probabilmente anche sulla base di accordi conclusi”, analizza il procuratore nazionale antimafia.
La Dia, inoltre, nota che i clan nigeriani collaborano con la criminalità albanese, con la quale esisterebbe “una sostanziale non belligeranza – a volte con tratti di sinergia – nel campo dello sfruttamento della prostituzione, particolarmente nel Triveneto ed in Campania, ove si è rilevata, sullo stesso territorio, la presenza di giovani donne appartenenti a entrambe le nazionalità”.
"Parlare del fenomeno della mafia nigeriana senza parlare della migrazione è impossibile. È più semplice accantonare il problema”Giovanbattista Fazzolari - senatore FdI
Da tempo la mafia nigeriana è al centro delle preoccupazioni della destra, che ha gioco facile nell’usare il falso binomio tra migranti e criminalità. Scavando negli archivi dei giornali, le pagine di cronaca locale di Torino ci ricordano che nell’autunno 2005 un giovane politico di Alleanza nazionale, l’attuale assessore piemontese Maurizio Marrone, denunciava di aver ricevuto un proiettile accompagnato da una bandiera della Nigeria, una minaccia per il suo impegno contro lo spaccio nel quartiere San Salvario, gestito da africani. “Un proiettile firmato mafia nigeriana”, titolava La Stampa. Due mesi prima i torinesi avevano potuto apprendere dalle pagine locali de La Repubblica che “a Torino sono presenti due sette segrete con più di 900 adepti”, secondo le stime degli investigatori. Un numero molto alto se si considera che i nigeriani residenti erano circa duemila (Dati Comune di Torino). Pochi mesi dopo, nel 2006, in città vengono condotte due operazioni contro la criminalità nigeriana che portano in carcere una sessantina di persone.
Tuttavia è dal 2018 che Fratelli d’Italia batte sul tema. Per prima cosa ha ottenuto un gruppo di lavoro specifico sul tema all’interno della commissione parlamentare antimafia: “Non si tratta di enfatizzare il fenomeno – dichiarava la deputata FdI Wanda Ferro –, ma, come vorrebbe Fratelli d’Italia, di prenderne coscienza e predisporre per tempo gli strumenti di contrasto normativi ed operativi”. Non bastava. Il partito di destra ha anche chiesto sezioni speciali all’interno dei tribunali e la presenza dell’esercito a Castelvolturno dove sempre la mafia nigeriana “ha deciso di occupare un pezzo di territorio italiano come Castel Volturno per farci la Capitale dello sfruttamento di essere umani e dell'espianto di organi", diceva Giorgia Meloni il 16 gennaio 2019 rilanciando una bufala sul traffico di organi.
L’interesse nel tema sembra essere soprattutto in chiave anti-migranti. Parlare di mafia nigeriana “rompe tutta la narrativa connessa all’immigrazione. Parlare del fenomeno della mafia nigeriana senza parlare della migrazione è impossibile. È più semplice accantonare il problema”, ha spiegato il senatore FdI Giovanbattista Fazzolari al convegno “La minaccia della mafia nigeriana” del 7 dicembre 2018. Dalla sua porta un dato: dei 600mila stranieri sbarcati in Italia dal 2011 alla fine del 2018, una buona parte arrivava dalla Nigeria. Certo, a guardare i dati statistici, la situazione si ridimensiona: i nigeriani residenti in Italia sono circa 117mila, al 15° posto tra le nazionalità più presenti, mentre a guardare la popolazione detenuta, se al 31 gennaio 2002 i nigeriani in carcere erano 558, al 31 ottobre 2021 erano 1.378 (su 54.307 detenuti totali). Se poi si guarda alle denunce per associazione mafiosa nel 2018, 2019 e nei primi nove mesi del 2020, i nigeriani sono stati meno di 219 rispetto ai 6.610 italiani (dati Servizio analisi centrale).
Al convegno di FdI in parlamento c’era anche lo psichiatra forense Alessandro Meluzzi, “un’autorità sulla mafia nigeriana” e autore di un libro sul tema insieme a Meloni. Meluzzi inserisce la questione della mafia nigeriana all’interno di discorsi complottistici sulla teoria dello sostituzione etnica, legandola a bufale su cannibalismo e traffici di organi e notizie di cronaca nera, come il caso della 18enne Pamela Mastropietro, caso che con la mafia nigeriana poco c’entrava. Meluzzi, in tv, invoca “rastrellamenti e calci in culo”. Nello schierarsi contro la mafia nigeriana, gli esponenti di FdI e Meluzzi attaccano anche Roberto Saviano, accusato di non essersi occupato di questa organizzazione criminale, i buonisti e il politicamente corretto.
Adewale Rotimi, Violence in the Citadel: The Menace of Secret Cults in the Nigerian Universities, Nordic Journal of African Studies;
K.O. Fayokun, Campus Cultism in Nigeria’s Higher Education Institutions: Origins, Development and Suggestions for Control, Makerere Journal of Higher Education;
Irit Eguavoen, Killer Cults on Campus: Secrets, Security and Services Among Nigerian Students, Sociologus;
Sergio Nazzaro, Mafia nigeriana. La prima indagine della Squadra antitratta, Città nuova, 2019;
Black mafia. Il primo documentario sul fenomeno della mafia nigeriana in Italia, regia di Romano Montesarchio, disponibile su Raiplay;
Relazione Dia secondo semestre 2018 con focus sulla mafia nigeriana;
Rapporto del Servizio analisi criminale del ministero dell’Interno;
Audizione del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho al comitato Schengen.
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