Aggiornato il giorno 26 giugno 2023
Le città invisibili di questo mese propongono una lunga riflessione sul caso Bruno Caccia scritta da Mario Vaudano, a lungo giudice istruttore di Torino. Nel testo, Vaudano illustra una pista alternativa a quella accertata nel corso delle indagini e dei processi che si sono svolti nel corso degli anni. Si tratta dell’ipotesi secondo la quale Bruno Caccia, procuratore di Torino ucciso il 26 giugno 1983, sarebbe stato ammazzato soprattutto per fermare un’indagine sul riciclaggio di denaro sporco di Cosa nostra nel casinò di Saint-Vincent. Per dovere di cronaca, precisiamo che la procura di Milano, nel richiedere l’archiviazione di questa pista, sostiene che gli spunti emersi in tale direzione “furono approfonditi, in modo scrupoloso, ma si rivelarono privi di consistenza probatoria” e che, tra gli informatori, “nessuno di costoro aveva notizie specifiche su autori o causali dell'omicidio e che si era trattato più che altro di una ricostruzione possibile (quella per cui la causale poteva essere l'indagine sui casinò), di una serie di valutazioni, ma non supportate da circostanze specifiche e da concreti e convincenti elementi di prova”. Al netto di questo, l’articolo – scritto da un ex magistrato che conosceva bene Caccia, per aver lavorato con lui in procura, e la Torino di quel periodo – è un testo importante capace di “riesumare le ‘relazioni pericolose’”, scrive Vaudano, di una certa magistratura.
“Ancora oggi, 40 anni dopo il suo assassinio, esistono tante verità nascoste su mio padre”. Lunedì 28 febbraio 2022 Paola Caccia prende la parola nell’aula magna del Politecnico di Torino, al termine di un incontro sulle stragi di mafia del 1992, e ricorda suo padre, Bruno Caccia, procuratore di Torino ucciso nel 1983. Secondo la donna, sebbene si conoscano gli esecutori , ancora oggi “non sappiamo chi abbia incoraggiato questo omicidio e questa verità, questo piccolo pezzo di verità, non ci basta”.
Nel 1975 Caccia aveva firmato la richiesta di rinvio a giudizio contro il nucleo storico delle Brigate rosse.
Lui, sostituto procuratore generale, e Gian Carlo Caselli, giudice istruttore, avevano costruito il processo ricorrendo all’accusa di “banda armata”
Per comprendere il contesto in cui a Torino è maturato l’assassinio del primo procuratore del Nord Italia bisogna inquadrare l’ambiente storico, culturale e criminale piemontese degli anni Settanta e Ottanta. In quel periodo la città, la sua regione e gran parte dell'Italia erano sotto la pressione del terrorismo rosso e nero. Le Brigate rosse (Br) e Prima linea da un lato; dall'altro Ordine nuovo, i Nuclei armati rivoluzionari (Nar) e altri gruppuscoli neofascisti. Però non va trascurata la crescita preoccupante, proprio in quello stesso periodo nel Nord Italia, dei sequestri di persona (spesso imprenditori o loro familiari) per mano della mafia siciliana e calabrese, organizzazioni ancora poco percepite nel Settentrione. A Torino, ad esempio, operavano i clan catanesi, detti cursoti, e alcuni ‘ndranghetisti.
Il 1983 – scrive Gian Carlo Caselli in Le due guerre – “l’Italia poté considerarsi fuori dall’emergenza terrorismo”. Questo avvenne anche grazie all’impegno diretto di Bruno Caccia nel processo contro il nucleo storico delle Brigate rosse, cominciato a metà anni Settanta a Torino. Se però l'Italia stava faticosamente uscendo dall’emergenza del terrorismo, doveva ancora fare i conti con le mafie che nelle terre di origine, proprio in quegli anni, facevano centinaia di morti.
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In questa situazione storica Bruno Caccia fu nominato procuratore capo della Repubblica nel 1980, succedendo a magistrati che avevano dimostrato di non essere capaci di compiere iniziative penetranti, mentre lui aveva già seguito tutta una fase importantissima delle istruttorie sulle Br.
Ricordo bene che quando entrai in magistratura come giudice istruttore nel 1972, il capo dell'ufficio istruzione era una persona carismatica: Mario Carassi, mio indimenticabile maestro e guida. Carassi mi mise subito in guardia su una certa situazione molto delicata e spiacevole: non c’era sempre un rapporto ideale tra la procura e i giudici istruttori, così mi invitò a essere diffidente verso alcuni procuratori anziani. Bruno Caccia arrivò già ben consapevole di questa situazione, e subito ebbe la conferma concreta delle condotte scorrette di alcuni già noti sostituti procuratori, gli stessi che poi furono sottoposti a processo disciplinare e penale per sua iniziativa. Posso quindi con tranquillità affermare che Caccia fu amatissimo da una parte di magistrati della procura che confidavano in lui per un vero riscatto dell’ufficio; nonché dalla maggior parte dei giudici istruttori che finalmente vedevano la possibilità di collaborare con reciproca fiducia ed efficacia con la procura, evitando le tante situazioni spiacevoli e dannose degli anni precedenti. Non si può dire altrettanto di altri magistrati che, sia pure in maniera non esplicita, si opposero alla sua azione risanatrice. Narrare il caso Caccia vuol dire tornare a parlare di “relazioni pericolose”, come quelle a cui fa riferimento un passaggio della seconda sentenza di appello per l’omicidio.
Durante le indagini gli investigatori, rimanendo per molto tempo lontano dall'obiettivo primario di individuare i diretti responsabili dell'omicidio, portarono a galla invece i legami sporchi tra alcuni colleghi di Caccia con certi malavitosi che il procuratore e i giovani magistrati della procura avevano messo sotto inchiesta. Si tratta di colleghi che poi sarebbero stati descritti, nella sentenza di condanna, come “magistrati inquinati” perché la loro vicinanza ai malavitosi avrebbero rafforzato il piano di questi ultimi. Si può dire quindi che l’eliminazione fisica di Caccia finì per divenire necessaria sia secondo il crimine organizzato, sia secondo i funzionari e magistrati collusi, poiché non era possibile influenzarlo né con minacce, né attraverso blandizie. Forse fu perché era stato vanamente tentato di “sondare il terreno” nei suoi confronti che una parte dei delinquenti di Torino e del Piemonte collegata a quel gruppo di magistrati infedeli, decisero di passare ai fatti. Sia pure a posteriori è quindi emerso con chiarezza che Bruno Caccia fu assassinato sia per quello che aveva fatto, sia per quello che si temeva avrebbe potuto ancora fare in una serie di delicate indagini in corso, come quella sul Casinò della Valle d'Aosta, e ancora in altre delicate inchieste.
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“In questa occasione ebbe modo di mostrarmi alcuni appunti riservati. Queste annotazioni, conservate in una cartellina gialla in un cassetto della scrivania chiuso a chiave, riguardavano il comportamento di certi magistrati, alcuni dei quali del suo ufficio”Mario Vaudano
La mattina di sabato 25 giugno 1983 io ero in ufficio per urgenti necessità di lavoro. Ero il giudice istruttore di un processo di grandissima rilevanza, quello sullo scandalo dei petroli, una vicenda di contrabbando ed evasione fiscale che coinvolgeva ufficiali della Guardia di finanza e dirigenti statali. Anche Caccia era in ufficio quel sabato, come sua costante abitudine. Ne approfittai per consultarlo e coinvolgerlo in un parere sull’emissione di un mandato di cattura urgente nei riguardi di altissimi ufficiali della Guardia di Finanza e di alcuni alti funzionari del ministero delle Finanze.
In questa occasione ebbe modo di mostrarmi alcuni appunti riservati. Queste annotazioni, conservate in una cartellina gialla in un cassetto della scrivania chiuso a chiave, riguardavano il comportamento di certi magistrati, alcuni dei quali del suo ufficio. Uno di loro in particolare, Luigi Moschella, avrebbe palesemente insabbiato alcune inchieste di grande rilievo. In tale occasione Caccia volle parlarmi di un appunto, che gli avevo inviato, con una precisa denuncia nei confronti di questo magistrato. Costui aveva chiaramente coperto i responsabili di frodi nel settore dei petroli e inoltre, poco tempo prima, mi aveva inviato un biglietto con velate minacce verso di me, un biglietto scritto di suo pugno nel quale rivelava indirettamente di essere in contatto con un imprenditore, Giuseppe Fedele, all’epoca latitante dopo un mandato di cattura da me emesso per falso e contrabbando in oli minerali nel processo dei petroli. Questi contatti illeciti furono poi provati e confessati nell’istruttoria del giudice istruttore di Torino e poi di Milano a carico dello stesso magistrato torinese.
La sera successiva Bruno Caccia fu assassinato davanti alla sua abitazione.
“Stavo dormendo, è squillato il telefono. Un tale mi ha detto di avvertirvi subito e di dirvi che loro, le Brigate rosse, hanno ucciso il dottor Caccia”Telefonata di un cittadino a La Stampa
Caccia fu assassinato il 26 giugno 1983, mentre portava a passeggio il proprio cane. Venne affiancato da una macchina con due uomini a bordo, che spararono numerosi colpi di arma da fuoco. Sin da subito le indagini seguirono la pista delle Brigate rosse. Mezz’ora dopo l’agguato, un uomo chiamò il centralino del quotidiano La Stampa: “Non capisco, stavo dormendo, è squillato il telefono. Un tale mi ha detto di avvertirvi subito e di dirvi che loro, le Brigate rosse, hanno ucciso il dottor Bruno Caccia”. Il mattino successivo due telefonate a quotidiani di Roma e alla sede Rai di Milano rivendicarono nuovamente l’attentato a nome delle Br.
L’11 luglio le Br negarono: “Con la morte di Bruno Caccia noi non c’entriamo – dichiarò il brigatista Francesco Piccioni leggendo un comunicato nell’aula del carcere ‘Le Vallette’ di Torino –. Questo è un omicidio a cui purtroppo siamo estranei”.
Un mese dopo il delitto, il 26 luglio 1983, gli atti dell’inchiesta sull’omicidio furono trasferiti per competenza da Torino a Milano, dove il procuratore capo Mauro Gresti assegnò il fascicolo a un giovane magistrato, Francesco Di Maggio, originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) come un personaggio di cui parlerò dopo.
Le indagini sull’omicidio segnarono il passo per circa un anno e un investigatore, il maggiore della Guardia di Finanza Bertella, aveva indicato in un suo rapporto informativo all’autorità giudiziaria di Milano che i possibili responsabili andavano ricercati nell’ambiente che ruota intorno al Casinò di Saint Vincent. Durante l’inchiesta furono sentiti diversi frequentatori del casinò, tra cui anche Rosario Pio Cattafi, originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), ritenuto un uomo del clan Santapaola di Catania ed esponente dell’estrema destra. La pista del Casinò non fu ritenuta valida nonostante alcuni testi e ufficiali di polizia giudiziaria l’avessero indicata esplicitamente.
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“Qualsiasi rapporto fra magistratura e servizi di sicurezza. Nel sistema italiano è inammissibile che le indagini possano essere appaltate alla Presidenza del Consiglio dei Ministri” Fabio Repici - avvocato della famiglia Caccia
Lo svolgimento delle indagini dopo una lunga fase di stallo ebbe un nuovo impulso da un intervento molto particolare. Un responsabile del centro torinese dei servizi segreti civili (Sisde) si offrì di far agire come agente provocatore all’interno del carcere di Torino un noto e importante mafioso siciliano catanese Francesco “Ciccio” Miano, in rapporti con un gruppo mafioso calabrese impiantato da tempo a Torino e sospetto dell'omicidio. Lo scopo era quello di indurre a parlare il loro capo riconosciuto, Domenico Belfiore, finito in carcere per un altro motivo. In questa maniera Miano registrò l’ammissione di Belfiore, che si sarebbe assunto la responsabilità di mandante dell’omicidio Caccia.
In seguito, in carcere, alcuni membri della criminalità organizzata iniziarono a rilasciare all’autorità giudiziaria dichiarazioni che indicavano in elementi della malavita organizzata di origine calabrese gli autori e il mandante dell’omicidio del procuratore Caccia. Mimmo Belfiore fu processato e condannato come mandante dell'assassinio.
All’epoca, così come oggigiorno, la legge vietava “qualsiasi rapporto fra magistratura e servizi di sicurezza – ha ricordato Fabio Repici, avvocato che assiste la famiglia Caccia, nel corso di un’audizione davanti al consiglio comunale di Torino il 15 novembre 2018 –. Nel sistema italiano è inammissibile che le indagini possano essere appaltate alla Presidenza del Consiglio dei Ministri”, da cui dipendono i servizi segreti. Questa impostazione dell'indagine risultò essere stata decisa e consentita dai magistrati inquirenti torinesi (peraltro già non più formalmente competenti per questo delitto) per ottenere risultati secondo loro non conseguibili con altri metodi. Tuttavia questa scelta finì per inquinare (o almeno restringere) la ricerca della verità nello svolgimento processuale successivo. Di fatto questo orientamento a senso unico non permise di arrivare a elementi di più ampia comprensione dei fatti e della responsabilità penale e morale di questo spietato assassinio mafioso.
L’indagine convergente sulla criminalità organizzata a Torino e la pista dei casinò fu abbandonata. La mafia messinese e quella di Barcellona Pozzo di Gotto cui risultava essere legato quel Rosario Pio Cattafi, indicato nel rapporto del maggiore Bertella e in seguito condannato definitivamente per associazione mafiosa, non fu mai trattata nelle indagini istruttorie e nemmeno nei successivi processi.
I processi che si celebrarono in seguito videro infatti solo la condanna definitiva di Belfiore quale mandante dell’omicidio. Il movente fu identificato nella costante azione di contrasto che il magistrato esercitava nei confronti del gruppo criminale guidato da Belfiore. Tuttavia nulla emerse sugli esecutori e su eventuali altri mandanti rimasti nell’ombra. Nelle sentenze del caso Caccia, solo poche pagine sono dedicate a un possibile movente del delitto distinto da quello indicato a carico di Belfiore.
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"La rilevante mole di fonti probatorie relative a Cattafi, a uno dei presunti killer e al possibile movente del delitto rimase però del tutto trascurata. Su di essa fu omessa ogni valutazione, anche solo finalizzata a destituirla di fondamento”Fabio Repici
Diciannove anni dopo la condanna definitiva a carico di Belfiore, un’intercettazione telefonica ruppe il silenzio calato sull’omicidio Caccia. Già tra il 1996 e il 1998 Vincenzo Pavia, genero di Belfiore, aveva reso importanti dichiarazioni che non furono approfondite, ma soltanto nel 2011 emersero alcuni elementi nuovi quando in un processo in corso a Reggio Calabria vengono depositati gli atti relativi a un’inchiesta su un magistrato, Olindo Canali, indagato per falsa testimonianza aggravata. In un’intercettazione – poi confermata in giudizio – Canali faceva riferimento, in merito all’omicidio Caccia, a Cattafi. All’epoca dell’assassinio, Canali era l’uditore giudiziario di Francesco Di Maggio.
Così, a trent’anni dall’omicidio, i figli di Bruno Caccia, con il loro avvocato Fabio Repici e col mio aiuto, hanno chiesto alla procura di Milano di riaprire le indagini fornendo una dettagliata contro-inchiesta e ipotizzando il coinvolgimento della mafia catanese di Nitto Santapaola e dei suoi presunti colletti bianchi, che allora tentavano di riciclare nel casinò di Saint Vincent e altre case da gioco i guadagni dei loro traffici illeciti.
I nomi delle persone chiamate in causa dalla famiglia furono principalmente due: Cattafi, identificato come ipotetico mandante dell’omicidio, e Demetrio “Luciano” Latella quale ipotetico esecutore. Secondo il legale Repici, il pm Di Maggio all’epoca avrebbe già “raccolto elementi indizianti ben significativi su soggetti diversi da quelli poi sottoposti a processo. (…) La rilevante mole di fonti probatorie relative a Cattafi, a uno dei presunti killer e al possibile movente del delitto rimase però del tutto trascurata. Su di essa fu omessa ogni valutazione, anche solo finalizzata a destituirla di fondamento”.
Per due volte la Direzione distrettuale antimafia di Milano iscrisse l’inchiesta tra gli atti “non costituenti notizia di reato”, registro che consente attività informative limitate. Le indagini quindi non avanzarono. Solo nel 2015 e solo in seguito al deciso intervento del procuratore generale cui si erano rivolti i famigliari tramite il legale, i nomi di Cattafi e Latella furono iscritti nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di concorso nell’omicidio del procuratore Bruno Caccia Vi fu una nuova spinta investigativa che coinvolse anche la Squadra mobile della questura di Torino.
Nell’estate 2015 Belfiore fu ammesso alla detenzione domiciliare per gravi motivi di salute. Gli investigatori iniziarono delle intercettazioni ambientali. Grazie a uno stratagemma indussero a dialogare sull’omicidio Caccia. La polizia, coordinata dalla Dda milanese, inviò a Belfiore e alcuni affiliati alla cosca (ma non ai due denunciati dalla famiglia, Cattafi e Latella) una lettera anonima contenente ritagli del quotidiano La Stampa sull’omicidio Caccia e un foglio con la scritta: “Omicidio Caccia: se parlo andate tutti alle Vallette (il carcere di Torino, nda). Esecutori: Domenico Belfiore - Rocco ‘Barca’ Schirripa. Mandanti: Placido Barresi, Giuseppe Belfiore, Sasà Belfiore”. Le reazioni registrate sulla corresponsabilità di Schirripa, con precedenti per traffico di droga e associazione mafiosa furono determinanti. Il 22 dicembre 2015 la polizia arrestò Schirripa, poi processato e condannato in via definitiva all’ergastolo. Nel corso del dibattimento, i figli di Caccia, costituiti parti civili nel processo, tentarono di far ammettere una serie di testimoni e atti sulla pista del riciclaggio mafioso nei casinò, ma la Corte d’assise respinse le richiesta ritenendola una “ipotesi investigativa estranea all’imputazione” a carico di Schirripa.
A quasi quarant'anni dall'omicidio sembra difficile accertare la verità processuale e individuare altre responsabilità oltre a quelle di Mimmo Belfiore e di Rocco Schirripa. Tuttavia, indossando gli occhiali dello storico, il lavoro condotto dalla procura guidata da Bruno Caccia (con quelle inchieste definite “scandali” dai cronisti perché coinvolgevano personaggi pubblici) ci porta ad analizzare i legami tra malavita e istituzioni, soprattutto pensando a una circostanza ben specifica: quello di Bruno Caccia è uno dei rarissimi casi di omicidio di un magistrato eseguito dalla ’ndrangheta che, tra le sue regole, ne annoverebbe una: “Mai colpire i magistrati – scriveva il 28 agosto 2010 su la Gazzetta del Sud Arcangelo Badolati ricordando l'omicidio del magistrato Francesco Ferlaino, avvenuto nel 1975 –. È stato questo per decenni il comandamento più osservato dalla 'ndrangheta calabrese. Attaccare uomini in toga avrebbe significato attirare l'attenzione dell'opinione pubblica nazionale e dei governi, determinando pure un irrigidimento di tutti gli organi giudiziari sia inquirenti che giudicanti". Nella seconda sentenza di appello per l’omicidio è scritto che il procuratore fu ucciso in quanto “ostacolava la disponibilità altrui”, cioè la disponibilità di altri magistrati, come ricorda Paola Bellone nel suo libro, Tutti i nemici del procuratore.
Nell’ottobre 2016 il giovane ’ndranghetista Domenico Agresta ha deciso di collaborare con la giustizia e ha riferito di aver appreso da fonte attendibile che Caccia non avrebbe voluto ascoltare le richieste della famiglia Belfiore di “aggiustare alcune indagini e processi” e per tale ragione Schirripa e Francesco D’Onofrio, estremista di Prima linea vicino alla cosca calabrese, l’avrebbero ucciso. Nel 2018 la procura generale milanese ha avocato il fascicolo ritenendo che fosse “mancata nel procedimento una reale attività di indagine”. Il fascicolo risulta ancora oggi aperto.
Nell’autunno 2020 l’avvocato Repici ha invece presentato un esposto contro il gip di Milano Stefania Pepe perché, a tre anni dall'opposizione alla richiesta di archiviazione della procura per Cattafi e Latella, non aveva ancora depositato alcun provvedimento. Poche settimane dopo l’esposto, il gip ha firmato l’archiviazione dell’indagine.
Questi ultimi eventi non hanno portato purtroppo a trovare prove nei confronti di altre persone, pur indicate nelle ripetute denunce della famiglia Caccia e del suo avvocato alla procura di Milano. I magistrati milanesi incaricati della nuova inchiesta non ritennero mai che vi fossero sufficienti elementi: nemmeno per eseguire perquisizioni e intercettazioni telefoniche nei loro confronti. Almeno al momento in cui si scrive non risultano nuove indagini né incriminazioni di ulteriori possibili responsabili.
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