L'arresto di un presunto trafficante di droga in Australia nel corso dell'operazione Ironside (Foto Australian federal police)
L'arresto di un presunto trafficante di droga in Australia nel corso dell'operazione Ironside (Foto Australian federal police)

Australia, un secolo di 'ndrangheta

"In Australia in ogni paese abbiamo uno dei nostri", dice un presunto 'ndranghetista intercettato dalla Dda di Roma. Secondo l'Australian federal police nello Stato oceanico esistono 14 clan calabresi

Anna Sergi

Anna SergiProfessoressa in Criminologia, University of Essex (Uk)

11 luglio 2022

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Nel maggio del 2022, operazione Propaggine ha rivelato le ipotesi accusatorie della procura antimafia di Roma riguardo a un presunto locale di ‘ndrangheta nella capitale, una “sezione” territoriale dell’organizzazione criminale calabrese. Il locale in questione, con a capo Antonio Carzo, originario di Cosoleto (Reggio Calabria), sarebbe per gli inquirenti appunto una propaggine, autonoma, del clan Alvaro. Nelle carte di questa operazione, analizzata in lungo e in largo dai giornali e commentatori e in attesa dunque di processo, c’è però un dato di cui molti non hanno forse colto il peso.

A un certo punto di una conversazione con un soggetto residente in Australia, Carzo menziona un certo “Compare Mino”, che gli inquirenti hanno già identificato come originario di Gioia Tauro ma iscritto all’Anagrafe degli italiani residenti all'estero (Aire) in Australia. Mino, che ha 77 anni ed è un uomo ‘pesante’ nella ‘ndrangheta, secondo Carzo e il suo interlocutore; Mino è anche il capo locale di Perth, nell’Australia occidentale. Sempre nella stessa conversazione si dirà anche che Là (in Australia, nda) noi abbiamo...ogni paese… abbiamo…dei nostri!”.

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Australia, 51 clan italiani, 14 della ‘ndrangheta

Sulla base delle informazioni dell'Australian federal police, qualche giornalista stima la presenza, in Australia, di cinquemila mafiosi italiani. Il calcolo lascia non poco a desiderare

Questa rivelazione, che è più una conferma che una novità, si va a sommare alla dichiarazione-bomba che l’Australian federal police (Afp) ha rilasciato il 7 giugno scorso. Secondo l’Afp esistono 51 clan di criminalità organizzata di origine italiana in Australia di cui 14 sono clan di ‘ndrangheta. Questi clan di ‘ndrangheta non solo sarebbero collegati con la Calabria e con l’Italia, ma avrebbero importanti legami – a volte in posizione di superiorità - con gruppi locali, come i bikies (i motociclisti cosiddetti ‘deviati’). Si tratta di indagini in corso in seguito all’operazione Ironside, che l’anno scorso, proprio l’8 giugno 2021, ha portato all’arresto di oltre 700 persone tra Australia e Usa, grazie ad intercettazioni di una app criptata, An0m, fatta circolare appositamente dalle forze dell’ordine tra i gruppi criminali.

Sulla base dell’intelligence di Ironside, oggi l’Afp arriva a dire che ci sarebbero tanti membri di clan italiani quanti sono i bikies; qualche giornalista si è quindi avventurato nelle stime, facendo uscire un numero, cinquemila – i presunti bikies e dunque i presunti mafiosi italiani – che lascia non poco a desiderare. Sulla questione dei numeri – e del perché non tornano si può fare un discorso a parte; ma il vero problema di queste affermazioni dell’Afp è che rientrano, ancora una volta, in quel circuito – attivo dagli anni Quaranta – per cui a una totale dimenticanza del fenomeno mafioso australiano segue un periodo di estrema visibilità del suddetto fenomeno, salvo poi ricominciare da capo. Della serie, tutti concentrati sulla mafia fintanto che riempie le pagine di giornale e tutti si dimenticano della mafia quando le indagini entrano invece in modalità sommersa. Senza farsi abbindolare dal senso di urgenza e di novità che la dichiarazione dell’Afp ha suscitato – quasi certamente per attirare attenzione e risorse dal nuovo governo australiano appena insediato – si tratta di una storia molto molto antica, in cui le stime si sprecano.

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Un secolo di ‘ndrine

Dopo un secolo dall’ingresso nel paese, i clan di ‘ndrangheta – che comunque in Australia sono diversi da quelli calabresi/italiani

Il 18 dicembre 2022 la ‘ndrangheta compirà cento anni in Australia. La nave ‘Re D’Italia’ che sbarcò nel dicembre 1922 a Fremantle, poi Adelaide e poi Melbourne, portò nel continente australiano i tre fondatori dell’Onoratà società down under. È storia quanto è leggenda, nel senso che questi tre personaggi risultano davvero nei registri della nave, ma ovviamente il loro status di ‘ndranghetista e ciò che avrebbero poi fatto una volta arrivati, resta avvolto nel mistero. 

Che la ‘ndrangheta australiana stia per compiere cento anni aiuta a spiegare una serie di cose. Innanzitutto, il fatto che in Australia non siano mai esistite altre mafie nostrane: si tratta dell’unico paese al mondo dove l’Onorata società calabrese ha assorbito altre manifestazioni di mafia d’importazione italiana. L’origine leggendaria, che riecheggia il numero tre tanto caro storie e ai rituali di ‘ndrangheta, ne conferma infatti la forte valenza identitaria; rifarsi a tali storie infatti aiuta l’organizzazione a cementare la sua narrativa sul territorio. Inoltre, dopo un secolo dall’ingresso nel paese, i clan di ‘ndrangheta – che comunque in Australia sono diversi da quelli calabresi/italiani – sono praticamente parte della storia d’Australia – ricordando che l’Australia come la conosciamo oggi esiste solo dal 1901.

Un’organizzazione criminale evoluta

Non usa la corruzione, ma una rete di amicizie e parentele strategiche e strumentali

Da un punto di vista evolutivo della criminalità organizzata di stampo mafioso, la ‘ndrangheta australiana è all’ultimo stadio, quello della penetrazione nella politica, nelle istituzioni, non tramite corruzione – si badi bene – ma tramite consenso e sfruttamento di amicizie strumentali e specifiche, strategiche e scelte familiari, tipo matrimoni incrociati anche con famiglie criminali autoctone. Ad esempio nell’Australia di oggi un capo-locale di Melbourne può intervenire nelle elezioni locali e nazionali grazie a donazioni dirette e indirette ai partiti; alle cene di gala pre-elezioni si siede al tavolo di uomini influenti della politica cittadina e a imprenditori, come lui, che gestiscono fette dell’economia dello Stato. Ci sarà qualcuno della sua famiglia coinvolto in proficui traffici di stupefacenti – quelli non mancano mai – ma la base attuale del potere ‘ndranghetista in Australia, come si è avuto modo di raccontare altrove, sta nello sfruttamento dell’imprenditorialità e solidarietà etnica, cioè della folta comunità migrante. Si tratta di soggetti gravitanti in circoli di potere locale, come le camere di commercio, o i centri culturali per capirci. 

Non si è ovviamente sempre stati a questo livello in Australia. Ci sono stati anni molto più ‘bui’, tra omicidi mafiosi e anche omicidi eccellenti, attribuiti a una onorata società che smaniava per proteggersi e affermarsi.

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Il caso di Griffith e certi omicidi irrisolti

Il 30 giugno 2022 è arrivato il verdetto sull'esplosione alla National crime autority del 1994: Dominic Perre è colpevole. La sua condanna solleva molte domande sul possibile ruolo delle famiglie di Griffith e quelle di Adelaide 

Sulla città di Griffith, nel nuovo Galles del Sud, pesa ancora dagli anni Settanta l’etichetta di città della mafia, o meglio della ‘ndrangheta, essendo le famiglie mafiose sul territorio nate sull’imprinting del locale di Platì (Rc). Griffith, dove si coltivavano ‘castelli d’erba’ (da intendersi cannabis) negli anni Settanta e Ottanta, è stata oggetto di una famosa quanto controversa inchiesta da parte di una Royal commission creata all’uopo nel 1979, che ha indagato su 5-7 famiglie, considerate affiliate alla Onorata società. Questa commissione di inchiesta individuerà in membri apicali delle famiglie Sergi, Barbaro e Trimboli a Griffith i mandanti di un omicidio, quello di Donald McKay, attivista e politico locale, che rimane ad oggi delitto insoluto, ma ancora caso aperto. Non seguirono infatti processi penali nei confronti di questi soggetti.

Altri omicidi, ancora meno chiari, rientrano nella sfera del possibile mandato ‘ndranghetista: ad esempio, quello di Colin Winchester, commissario dell’Afp a Canberra, ucciso nel 1989. Per l’omicidio Winchester si condannò David Eastman, con un movente personale, ma nel 2014 il caso è stato ribaltato e la pista di ‘ndrangheta è ritornata a galla, senza però alcuna chiarezza.

E ancora, nel 1994, quando un pacco bomba ha fatto saltare in aria un intero piano di quella che allora era la National crime authority (oggi diventata Australian criminal intelligence commission) di Adelaide, capitale dell’Australia meridionale, ha ucciso Geoffrey Bowen, detective appena 36enne, e severamente ferito l’avvocato Peter Wallis in stanza con Bowen in quel momento, si è nuovamente parlato di ‘ndrangheta, dal momento che Bowen avrebbe dovuto testimoniare in un processo di droga che vedeva imputati, tra gli altri, alcuni calabresi tra cui due fratelli Perre, anche loro originari di Platì e legati alle famiglie di Griffith. Il processo per il cosiddetto Nca bombing, ha avuto più vicissitudini processuali di ogni altro processo australiano. Si è arrivati all’effettivo processo contro Domenic Perre soltanto 24 anni dopo, nel 2018.

Il processo, il più lungo della storia d’Australia, è terminato nel settembre 2021. Il 30 giugno 2022 è arrivato il verdetto: colpevole. Questa condanna, solleva molte domande sul possibile ruolo delle famiglie di Griffith e quelle di Adelaide in questo omicidio, ma non è detto che tali domande avrebbero risposte. Rimangono domande aperte anche nell’omicidio dell’avvocato (di discendenza calabrese) Joseph Acquaro, ucciso a Melbourne nel 2016 e su cui, a detta degli inquirenti, pesava una “condanna a morte” da parte di alcuni dei clan cittadini, perché Acquaro avrebbe parlato con autorità e giornalisti e dunque tradito la fiducia dei suoi “assistiti”. Per l’omicidio di Acquaro, un altro calabrese è oggi a processo, ma i suoi legami con i suddetti clan che all’inizio avevano destato curiosità e domande anche dai giornalisti, sono ad oggi non chiari o non pervenuti.

Droga e porti, la via del mare

Il focus sul narcotraffico (ma non sul riciclaggio)

Armi, droghe e alcuni oggetti di lusso sequestrati dalle forze di polizia australiane nel corso dell'operazione Ironside (Foto Australian federal police)
Armi, droghe e alcuni oggetti di lusso sequestrati dalle forze di polizia australiane nel corso dell'operazione Ironside (Foto Australian federal police)
"The world’s largest ecstasy bust”, così è stata definita l'operazione Inca, fatta dall'Australian federal police tra il 2007 e il 2008: 4,4 tonnellate di Mdma e 160 kg di cocaina sotto sequestro

Perché è proprio questo il problema – tornando per un attimo a Operazione Ironside e agli annunci dell’Afp. Come accadde anche nel 1979, poi nel 1993 – quando si fece partire la decennale Operazione Cerberus che nel 2003 contò 55 famiglie criminali di origine italiana, principalmente calabrese in Australia – il focus delle forze di polizia rimane sui traffici di stupefacenti, nonostante conoscano molto bene il resto del fenomeno. Non è un problema di volontà, ma purtroppo di divisione di competenze e di mancanza di risorse. Operazione Ironside è stata finora interamente concentrata sui traffici illeciti, con soggetti di origine calabrese (ma di fatto australiani) come Domenico Catanzariti e Salvatore Lupoi, arrestati dall’Fbi nella parallela Operazione Trojan Shield, considerati broker dell’underworld australiano per quanto riguarda attività di importazione di metanfetamine, cannabis e cocaina.

Sicuramente, in questi decenni non sono mancati i reati mafiosi classici, tra cui proprio il traffico di stupefacenti. Era a predominanza calabrese il gruppo di soggetti arrestati dall’Afp durante Operazione Inca, nel 2007-2008, in quella che venne chiamata “the world’s largest ecstasy bust” (la più ingente confisca di ecstasy del mondo). Individui legati al clan Barbaro, con collaboratori in Italia, tentarono di far arrivare a Melbourne 4.4 tonnellate di Mdma e 160 kg di cocaina, ma vennero bloccati dalle forze di polizia. Sicuramente da Inca a Ironside l’influenza dei gruppi onorati sui traffici illeciti australiani è stata oggetto di indagini e di mappature delle famiglie criminali.

Non è facile mappare un’organizzazione criminale che, quando commette crimini, ha ormai necessariamente un’identità molto ibrida – ovviamente i traffici illeciti vanno fatti con collaboratori di altri gruppi. Un’organizzazione che, quando entra nei gangli dell’economia e della società, lo fa sfruttando i canali della solidarietà etnica e contando su un patrimonio di consenso e ‘amicizie’ ormai decennali. Un’organizzazione che, a livello logistico, appare frammentata in varie località del continente australiano, e in cui al potere ‘ndranghetista – quello reale, di risoluzione dei conflitti, di mediazione e di mantenimento dei codici di comportamento criminale – non sempre corrisponde il potere criminale, dislocato appunto altrove. Si può sperare, sempre rispetto agli annunci dell’Afp di qualche giorno fa, che il tanto annunciato focus sul riciclaggio dei proventi del crimine potrebbe portare anche a indagini sulla prossimità politica di certi individui e dei loro capitali. Ma allo stesso tempo resta da chiedersi se, per certe dinamiche, non sia già irrimediabilmente in ritardo. 

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