14 aprile 2023
“La repressione sta diventando la risposta più facile al dissenso”. A dirlo è Michel Forst, da ottobre scorso primo relatore speciale delle Nazioni unite sui difensori dell’ambiente nell’ambito della Convenzione di Aahrus, che si occupa della partecipazione, l’informazione e l’accesso alla giustizia in materia ambientale. Il suo viaggio in molti paesi del mondo ha l’obiettivo di raccogliere informazioni sulle forme di attivismo ambientale e sulla risposta governativa al dissenso. È anche alla ricerca di esempi positivi da poter seguire, come quello che ha incontrato nel Regno unito, dove 750 avvocati inglesi si sono rifiutati di perseguire chi protesta pacificamente.
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In queste settimane si trova in Europa, dove molti governi stanno cercando di fermare le manifestazioni. Anche in Italia, il nuovo decreto legislativo di Fratelli d’Italia approvato dal consiglio dei ministri contro i cosiddetti ecovandali intende scoraggiare ogni tipo di protesta. A tentare di fermare i movimenti, multe fino a 60mila euro e il carcere da sei mesi a tre anni se si deturpano edifici pubblici, con il divieto di avvicinamento alle opere d’arte. Secondo Forst, “servono istituzioni meno populiste e giudici più coraggiosi” per comprendere le vere cause delle azioni che vanno anche contro la legge.
La criminalizzazione degli attivisti che si battono per l’ambiente è al centro di un grande dibattito in Italia e in Europa. Che situazione sta incontrando nei diversi paesi?
Servono istituzioni meno populiste e giudici più coraggiosiMichel Forst
Dall’inizio del mio mandato, ho deciso di compiere un viaggio per l’Europa, incontrando ministri ed esponenti politici per sondare le varie possibilità di supporto da parte delle istituzioni, e gruppi di attivisti, per ascoltare da loro cosa stesse accadendo. La realtà di cui sono venuto a conoscenza è complessa. Da parte di molti governi l’approccio utilizzato è duro, con forti critiche contro chi manifesta per denunciare la crisi ecoclimatica. Spesso si ricorre a termini come “ecoterroristi” – parola per me sbagliata e fuorviante – o addirittura “talebani”, espressione gravemente offensiva, visto ciò che sta subendo la popolazione in Afghanistan. In ogni caso, questo linguaggio scredita non solo le persone che partecipano alle azioni, ma anche le cause per cui si battono.
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Chi ne paga le conseguenze?
Ci sono dei gruppi sociali che più di altri soffrono questo tipo di attacco, visto che la potenza mediatica delle istituzioni fa sì anche l’opinione pubblica reagisca in modo negativo alle azioni. Mi riferisco in particolar modo ai giovani e alle giovani che cercano di produrre una coscienza diffusa sul tema della crisi ambientale e vengono visti come elemento di disturbo e criminalizzati. Dalle parole, poi, si passa ai fatti. Per fermare le manifestazioni, si cambiano anche le leggi: l’effetto è quello di trasformare la disobbedienza civile in qualcosa di illegale.
Quali misure sono state adottate?
Spesso si ricorre a termini come “ecoterroristi” – parola per me sbagliata e fuorviante – o addirittura “talebani”, espressione gravemente offensiva, visto ciò che sta subendo la popolazione in Afghanistan
In Germania nel 2021 è stata inserita una nuova norma che limita la libertà di assemblea in determinate aree delle città, e il blocco stradale è ora qualificato come violenza. In Austria, il cancelliere Karl Nehammer ha invocato misure repressive più dure contro chi protesta. In Italia, si sta discutendo l’introduzione del reato di danneggiamento aggravato per l’imbrattamento dei monumenti. Le pene diventano più pesanti e coinvolgono anche persone non direttamente implicate nelle azioni. C’è addirittura il caso francese di un giornalista a cui sono stati imputati gli stessi capi d’accusa degli attivisti, perché si trovava sul luogo per svolgere il suo lavoro. (In Italia, un esempio di questo tipo di misura è stata la condanna di Roberta Chiroli nel 2016 a due mesi di carcere con condizionale per aver approfondito nella sua tesi di laurea la battaglia dei No Tav, movimento contrario alla linea ferroviario ad alta velocità tra Lione e Torino, ndr). Sono misure pensate ad hoc per disincentivare il dissenso.
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Si utilizzano anche misure preventive?
Sì e questo è indicativo di come si stia cercando di arginare le forme di protesta pacifica: le misure amministrative sono inviate addirittura prima delle manifestazioni. Esistono esempi di custodia cautelare in alcune zone della Germania, dove chi partecipa a questi eventi può essere trattenuto fino a trenta giorni. In Francia e in Italia si istituiscono le zone rosse e si distribuiscono fogli di via. Ho monitorato anche l’uso spropositato degli strumenti di investigazione da parte delle forze dell’ordine, con perquisizioni delle case. La polizia francese ha seguito gli attivisti fino in ospedale, con l’obiettivo di identificarli e perseguirli. In Austria, ci sono stati casi di persone minacciate di denuncia allo scopo di disincentivare le loro attività.
Ci sono dei contesti in cui la causa ambientalista invece viene compresa?
Fortunatamente sì e il mio ruolo mi permette di evidenziare alcuni esempi positivi. Nel Regno Unito, di recente, c’è stata una dichiarazione collettiva firmata da 750 avvocati, che si rifiuteranno di perseguire gli attivisti pacifici. Se questa pratica avvenisse anche in altri Paesi europei sarebbe un segnale molto forte e un risultato eccellente. Ci sono stati dei casi in cui i giudici hanno ridotto significativamente le pene, portandole a un giorno di reclusione o a un euro di multa: condanne simboliche.
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Ha dichiarato che “le azioni illegali a volte sono legittime”. In che senso?
"In Francia, ad esempio, esiste quella che si chiama “clausola di necessità”, che viene utilizzata nel caso in cui si infrange la legge per un bene superiore. Così dovrebbe essere anche per la crisi climatica"
Bisogna comprendere le cause per cui si decide di andare contro la legge. Alle volte, i giudici si concentrano sull’azione in sé e non sulle ragioni profonde che la muovono. In Francia, ad esempio, esiste quella che si chiama “clausola di necessità”, che viene utilizzata nel caso in cui si infrange la legge per un bene superiore. Si utilizza quando, ad esempio, durante un’emergenza si sta correndo con la macchina per arrivare in ospedale e si passa con il semaforo rosso. Se pensiamo alla crisi ecoclimatica, gli attivisti non fanno altro che denunciare la scomparsa del mondo e dell’umanità: anche in questo caso alzare la voce è necessario. Decidono di infrangere la legge deliberatamente, perché sanno che non ci saranno più risorse per tutti.
Chi sono i difensori dell’ambiente?
Dalla mia esperienza posso dire che i difensori dell’ambiente non nascono come tali: loro stessi non si definiscono così, lo diventano per necessità. Sono persone che sono costrette a tutelare la propria terra, i possedimenti che hanno nel momento in cui si sentono minacciati dallo Stato o da alcune grandi multinazionali. Una storia spiega molto bene questo processo di espropriazione dei beni: è quella di una popolazione indigena australiana che, da un giorno all’altro, si è vista arrivare gli escavatori e le trivelle mandate a fare nuove esplorazioni in cerca di risorse da sfruttare. Quella che per le aziende era semplice terra, per loro è casa.
A questo proposito, il parlamento europeo vuole introdurre il reato di ecocidio. Può essere una strada utile a proteggere anche i difensori dell’ambiente?
Non è l’unica via, ma di sicuro aiuta a puntare l’attenzione sul fatto che stiamo uccidendo il nostro pianeta. Il reato di ecocidio mette di fronte alla realtà dei fatti: gli Stati non stanno facendo abbastanza, alle volte sono addirittura complici.
Quali passi devono ancora essere fatti perché si formi una coscienza ambientale forte a livello globale?
Più che passi in avanti, serve una presa di posizione politica: governi, parlamenti, capi di Stato devono essere meno populisti e più coscienti di cosa propongono e come affrontano la crisi ecoclimatica. Mi aspetto che i giudici siano più coraggiosi e prendano in considerazione le cause profonde per cui le persone infrangono la legge.
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