Un cartello di un'attivista con la scritta "Ci vediamo in tribunale". Foto: facebook/Greenpeace
Un cartello di un'attivista con la scritta "Ci vediamo in tribunale". Foto: facebook/Greenpeace

Greenpeace e Recommon portano Eni in tribunale

Oggi la prima udienza della causa civile contro il Cane a sei zampe. È la prima volta una "climate litigation" arriva in tribunale in Italia: ong e privati chiedono al giudice di accertare le responsabilità dell'azienda e i danni climatici che ha provocato

Natalie Sclippa

Natalie SclippaRedattrice lavialibera

16 febbraio 2024

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È prevista per oggi la prima udienza della causa civile promossa da Greenpeace, Recommon e dodici privati contro il colosso energetico Eni. L’obiettivo dell'iniziativa, che i proponenti hanno ribattezzato “La giusta causa”, è imponente. Non solo si chiede a un giudice di accertare il danno climatico provocato dall’azienda a causa delle emissioni di CO2, ma – ed è questa la parte più originale – si chiede di imporre una trasformazione del piano strategico del Cane a sei zampe, perché si allinei agli studi scientifici sulla crisi climatica e al rispetto dei limiti decisi a livello internazionale. E si prevengano anche danni futuri. Si tratta della prima volta, in Italia, che questo tipo di richieste (denominate climate litigation) vengono portate in tribunale, anche se in altri Paesi dell’Unione europea la strategia di affiancare l’attenzione sul risarcimento danni all’impegno strutturale è una scelta che ha già portato multinazionali, come Shell, a dover rispondere del proprio operato. 

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L’accusa

Il 9 maggio scorso le due associazioni hanno notificato un atto di citazione davanti al Tribunale di Roma ad Eni, il Ministero dell’Economia e delle finanze e Cassa depositi e prestiti, essendo l’azienda una partecipata statale al 30 per cento. Le richieste conclusive sono cinque. La prima è accertare e dichiarare che i tre soggetti non hanno ottemperato al raggiungimento degli obiettivi climatici stabiliti a livello internazionale, ossia quelli necessari a rispettare il limite di 1,5 °C di riscaldamento globale rispetto all’era preindustriale. La seconda accertare e dichiarare la loro responsabilità per tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali presenti e futuri, che sono conseguenza del cambiamento climatico che i citati hanno concorso a provocare. 

Si tratta della prima volta, in Italia, che questo tipo di richieste (denominate climate litigation) vengono portate in tribunale

La terza riguarda esclusivamente Eni: i proponenti chiedono al tribunale di imporre all'azienda la limitazione delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera – in modo da limitare il volume di emissioni del 45 per cento a fine 2030 rispetto ai livelli del 2020 – stabilendo una condanna pecuniaria in caso di inottemperanza. La quarta richiesta è rivolta a Ministero delle finanze e Cassa depositi e prestiti, cui è imposto di adottare una policy operativa che monitori gli obiettivi climatici di Eni, in linea con i punti dell’Accordo di Parigi. Infine, in via subordinata, obbligare tutti i citati all'adozione "di ogni necessaria iniziativa che garantisca il rispetto degli scenari elaborati dalla comunità scientifica internazionale". 

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Le conseguenze della crisi climatica sulla pelle delle persone

Alluvioni, siccità, frane. I dodici ricorrenti privati, schierati al fianco delle due ong, raccontano di un’Italia devastata dal dissesto idrogeologico. Marco Lion di Senigallia è stato vittima dell’inondazione che gli ha allagato casa e ha distrutto parte dei suoi beni e dei suoi ricordi. Giovanna Deppi e Lucia Ruffato hanno paura di dover affrontare di nuovo una situazione come quella che hanno vissuto con la tempesta Vaia nel 2018.

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Vanni Destro, Giorgio Crepaldi, Lucia Pozzato e Patrizia Bertelle, rischiano di dover abbandonare il Polesine a causa della siccità e delle ondate di calore. A queste storie si aggiungono quelle di Ninetto Martucci di Venezia, che vive direttamente gli effetti dell’innalzamento del livello del mare e Rachele Caravaglios e Antonietta D’Antonio, che, in Piemonte, sono esposte a livelli di inquinamento dell’aria sopra la soglia consentita, a ondate di calore e piogge improvvise. La preoccupazione investe anche Francesca Zazzera, che ha paura di dover trasferirsi in un altro luogo, mentre Noa Hellfer di Acireale è già stato costretto a ristrutturare la propria abitazione distrutta in parte da alluvioni e trombe d’aria. 

Alluvioni, siccità, frane. I dodici ricorrenti privati, schierati al fianco delle due ong, raccontano di un’Italia devastata dal dissesto idrogeologico

La risposta di Eni

“L’azione civile promossa da Greenpeace, ReCommon e alcuni attori privati rispecchia una demonizzazione del ruolo della grande impresa in Italia e si fonda su tesi e pregiudizi smentiti dai fatti” è la risposta di Eni all’accusa. Dall’azienda ribadiscono si tratti di una narrazione falsa, strumentale, “secondo cui l’utilizzo di fonti fossili sarebbe funzionale solo agli interessi privati ed economici di quella che gli attori definiscono la grande lobby delle compagnie petrolifere”.

Per il Cane a sei zampe, il tribunale dovrebbe dichiarare inammissibili o improponibili le richieste, accertando la “totale infondatezza delle domande formulate dagli attori”

Per il Cane a sei zampe, il tribunale dovrebbe dichiarare inammissibili o improponibili le richieste, accertando la “totale infondatezza delle domande formulate dagli attori”, come scrivono nell’atto di risposta alla citazione. Per sottolineare il suo ruolo strategico nel comparto energetico e sminure la controparte, Eni ricorda come siano “tutti rappresentanti del mondo dell’associazionismo e della politica ambientale” quelli che hanno portato la multinazionale del fossile davanti al giudice, marcando “l’inadeguatezza dell’approccio metodologico”. 

Perché Eni è chiamata a rispondere 

Il modo con cui si vuole chiedere giustizia è innovativo. Questo tipo di cause si inserisce nell’ambito delle cosiddette “climate litigation”. Si tratta di azioni legali iniziate per imporre ai governi e ad alcune aziende di rispettare gli impegni presi contro la crisi climatica a livello internazionale.

Obbligare uno Stato e una multinazionale del petrolio a ridurre le proprie emissioni climalteranti si può.

Obbligare uno Stato e una multinazionale del petrolio a ridurre le proprie emissioni climalteranti si può. Lo ha dimostrato l’Olanda, con due casi emblematici: Urgenda – condanna lo Stato a ridurre del 25 per cento la produzione di CO2 entro il 2020 rispetto ai livelli del 1990 – e la causa contro Shell, che nel 2021 ha imposto all’industria fossile di ridurre le proprie emissioni di anidride carbonica del 45 per cento entro il 2030.

Lo spirito che anima queste vicende si ripropone anche nel caso italiano: vista l’immobilità dei governi e la lentezza delle multinazionali del fossile, per accelerare la transizione e rispettare i diritti umani può servire andare in tribunale. 

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