26 maggio 2021, l'Aja (Paesi Bassi). Da sinistra, l'avvocato Roger Cox e Donald Pols, direttore di Milieudefensie, dopo la sentenza contro Shell (Remko de Wall/Epa-Ansa)
26 maggio 2021, l'Aja (Paesi Bassi). Da sinistra, l'avvocato Roger Cox e Donald Pols, direttore di Milieudefensie, dopo la sentenza contro Shell (Remko de Wall/Epa-Ansa)

La battaglia per il clima arriva in tribunale

Dal caso Urgenda alla causa contro la Shell, le cause giudiziarie intentate dagli ambientalisti olandesi hanno fatto scuola. In Italia, il primo processo contro lo Stato per inadempienze sul clima è iniziato a dicembre

Francesca Dalrì

Francesca DalrìGiornalista, il T quotidiano

Natalie Sclippa

Natalie SclippaRedattrice lavialibera

21 febbraio 2022

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Obbligare uno Stato e una multinazionale del petrolio a ridurre le proprie emissioni climalteranti si può. È successo in Olanda, con i casi Urgenda nel giugno 2015 e Shell nel maggio 2021. L’accusa per gli imputati, in entrambi i processi gestiti dall’avvocato Roger Cox, è di non fare abbastanza per il clima. Le due vittorie storiche hanno avuto risonanza in tutto il mondo: ad oggi si contano almeno 1.550 contenziosi in 38 Paesi secondo il Global climate litigation report delle Nazioni unite. La tendenza è arrivata anche in Italia dove lo scorso 14 dicembre si è tenuta una prima udienza contro lo Stato (promossa dall’associazione ASud con 203 ricorrenti) e dove la rete di giuristi Legalità per il clima ha inviato una diffida alla multinazionale Eni.

Il caso Urgenda

"È stata una corte negli anni Cinquanta negli Stati Uniti a dichiarare la segregazione scolastica degli studenti neri incostituzionale. Perché non chiedere alle corti di cambiare in meglio la società ancora una volta?". È il 2012 e l’avvocato olandese Roger Cox scrive il libro La rivoluzione legittima. Perché adesso solo la legge può salvarci. La premessa dell’avvocato è: se il governo non è in grado di difendere i cittadini ma, anzi, contribuisce a sottoporli ai pericoli causati dal cambiamento climatico, allora non resta che chiamarlo alle sue responsabilità davanti a una corte.

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Il libro di Cox accende gli animi e nel 2014 un gruppo di 886 cittadini e associazioni decide di passare dalla teoria ai fatti: nasce il caso Urgenda contro i Paesi Bassi. Dopo appena un anno, il 24 giugno 2015 la corte dell’Aia dà ragione a Cox e condanna lo Stato olandese a ridurre del 25 per cento la produzione di CO2 entro il 2020 rispetto ai livelli del 1990. Secondo il giudice esiste un nesso tra le emissioni di gas serra olandesi, il riscaldamento globale e i suoi effetti nei Paesi Bassi. I ricorsi non tardano ad arrivare (prima in corte d’appello, poi davanti alla corte suprema), ma entrambi vengono respinti e nell’ottobre 2019 i Paesi Bassi vengono definitivamente condannati. La vittoria è storica, tanto da portare l’Alto commissariato dell’Onu ad affermare che la riduzione delle emissioni climalteranti è implicitamente un obbligo anche per le altre nazioni.

Il caso Shell

"Volevamo che fosse la causa delle persone. Buona parte del lavoro è consistito nel descrivere al giudice cos’è il cambiamento climatico e come questo abbia effetti diretti sui cittadini, nonché come l’attività di Shell contribuisca alla crisi ecologica"Nine De Pater - Attivista e ricercatrice

Negli anni il libro di Cox e la sua azione hanno convinto molti a seguire la strada giudiziaria. Dopo il caso Urgenda, l’associazione Friends of earth Paesi Bassi ha chiesto a Cox di portare sul banco degli imputati anche la multinazionale olandese del petrolio Shell. "Abbiamo provato a parlare con l’azienda e convincere il governo a intervenire, ma i nostri sforzi erano vani: non ci restava che andare in tribunale", racconta a lavialibera l’attivista Nine De Pater. Per preparare il caso ci sono voluti quasi cinque anni di discussioni e ricerche. A sorprendere è soprattutto il numero dei ricorrenti: 17.379 cittadini e sei associazioni. "Volevamo che fosse la causa delle persone – spiega De Pater –. Buona parte del lavoro è consistito nel descrivere al giudice cos’è il cambiamento climatico e come questo abbia effetti diretti sui cittadini, nonché come l’attività di Shell contribuisca alla crisi ecologica". Motivazioni accolte in toto dal giudice olandese che lo scorso 26 maggio ha condannato Shell a ridurre le proprie emissioni di anidride carbonica del 45 per cento entro il 2030. Non solo: Shell dovrà adeguarsi sin da ora, nonostante il verdetto sia solo di primo grado e l’azienda abbia già annunciato ricorso.

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Esportare un modello

Il 3 febbraio 2021 arriva la sentenza del tribunale amministrativo: la Francia è colpevole per le carenze contro il cambiamento climatico e deve pagare il risarcimento

Fuori dall’Olanda, nell’Unione europea si contano oggi altre due storiche sentenze: l’Affaire du siècle in Francia e Neubauer contro lo Stato tedesco in Germania. In Francia l’affare del secolo è iniziato il 14 marzo 2019 dopo la raccolta di due milioni di firme da parte delle ong Oxfam Francia, Greenpeace, Notre affaire à tous e Fondation pour la nature et l’homme. "Abbiamo tre obiettivi – spiegava l’avvocato di Greenpeace Clément Capdebos –: far riconoscere l’obbligo dello Stato di combattere il cambiamento climatico, stabilire le sue carenze e obbligarlo ad agire". Gli attivisti chiedono il rimborso simbolico (un euro a testa) del danno morale e del danno ecologico arrecato ai cittadini per non aver rispettato l’obiettivo dei primi anni per arrivare alla riduzione del 40 per cento delle emissioni entro il 2030 rispetto al 1990. Il 3 febbraio 2021 arriva la sentenza del tribunale amministrativo: la Francia è colpevole per le carenze contro il cambiamento climatico e deve pagare il risarcimento. Non solo: dovrà compensare 15 milioni di tonnellate di CO2 equivalente entro la fine del 2022, ovvero la quota di emissioni in eccesso prodotte dal Paese rispetto agli obiettivi previsti dalla strategia nazionale per il triennio 2015-2018.

"Decisione storica" è stata definita anche quella arrivata il 29 aprile 2021 a Berlino. La corte costituzionale di Karlsruhe ha ammesso che la legge tedesca riguardante la protezione del clima non solo è insufficiente, ma viola i diritti fondamentali dei cittadini più giovani. Il caso Neubauer vs Germania prende il nome da Luisa Neubauer, icona delle proteste dei Fridays for future. Per la corte tedesca, ridurre del 55 per cento le emissioni climalteranti rispetto al 1990 entro il 2030 non basta, occorre arrivare almeno al 65 per cento. Se così non fosse, scrive la corte, "lasceremmo le generazioni future con l’onore di ridurre drasticamente le emissioni esponendo le loro vite a gravi perdite di libertà".

La difficile applicazione delle sentenze

Nonostante il grande risultato giudiziario, ad oggi la sentenza Urgenda non è stata rispettata. A dirlo sono i dati preliminari di Cbs statistics Netherlands, l’istituto statistico nazionale. Non è bastato lo stop causato dalla pandemia a far rientrare lo Stato nei parametri stabiliti dalla Corte. Il Paese dovrebbe incorrere, quindi, in una sanzione, ma non ci sono precedenti storici per prevedere come andrà a finire.

In Francia, d’altro canto, la vittoria è stata solo mediatica, perché è stata solo riconosciuta la colpa di non aver rispettato la riduzione delle emissioni che lo Stato si era prefissato. Il verdetto tedesco, invece, considera la violazione dei diritti umani futuri. Questo significa che il Climate protection act, la legge tedesca per la protezione del clima, rimarrà in vigore. Ci sarà una revisione dei target, ma solo nel 2025, per dare una risposta concreta alla sentenza del 2021.

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Italia, eppur si muove

Diversa la situazione nel nostro Paese dove, secondo l’avvocato Luca Saltalamacchia della rete di giuristi Legalità per il clima, "le grandi associazioni ambientaliste si rifiutano di considerare la strada giudiziaria nei confronti di Eni, seppur l’azienda emetta più gas serra dell’intera Italia" (circa 537 milioni di tonnellate di CO2 equivalente rispetto alle circa 428 prodotte dall’Italia, considerando tutte le attività dell’azienda nel mondo, ndr). Ad oggi è stata inviata solo una diffida a nome dello studio legale. Si chiede a Eni, in qualità di "unità economica di impresa pubblica italiana multinazionale" di abbattere le emissioni di gas serra e "abbandonare, entro e non oltre il 2022, qualsiasi finanziamento al fossile, nonché escludere la produzione di idrogeno blu" (derivante dal gas fossile e accoppiato a un sistema di cattura e stoccaggio della CO2).

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Qualcosa si muove invece sul fronte della responsabilità statale. Dopo due anni di lavori preparatori, lo scorso 14 dicembre si è tenuta la prima udienza contro lo Stato italiano per inazione climatica. La causa, promossa dall’associazione ASud, è stata avviata di fronte al tribunale civile di Roma nei confronti della presidenza del Consiglio dei ministri da 203 ricorrenti: 17 minori, rappresentati in giudizio dai propri genitori, 162 maggiorenni e 24 associazioni. Due le richieste principali dei ricorrenti. Primo: dichiarare che lo Stato italiano è inadempiente nel contrastare la crisi climatica e che l’impegno attuale è insufficiente a centrare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Secondo: imporre l’adozione delle misure necessarie a garantire la stabilità climatica, a partire dagli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra. "Le politiche pianificate dal governo italiano dovrebbero portare a una riduzione delle emissioni nel 2030 di appena il 36 per cento rispetto ai livelli del 1990", spiegano gli attivisti. Secondo un report commissionato dai ricorrenti al centro studi internazionale Climate analytics, applicando il principio di equità e di responsabilità comuni differenziate (ossia tenendo conto delle responsabilità storiche del nostro Paese nelle emissioni di gas serra e delle attuali capacità tecnologiche e finanziarie italiane), la riduzione dovrebbe ammontare al 92 per cento. Anche nel caso italiano, come avvenuto per Urgenda, argomentazione centrale della causa è la necessità di "tutelare il diritto umano al clima stabile e sicuro, ineludibile e necessario per il godimento di tutti gli altri diritti fondamentali".

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