Boss e carceri: i diritti siano per tutti

La notizia inesatta della scarcerazione dei mafiosi per il Covid-19 ha messo in fibrillazione l'antimafia. Eppure, la ricerca del colpevole non può essere la risposta e l'obiettivo rieducativo non deve essere tralasciato, nemmeno per i boss

Presidio Unilibera Milano

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27 giugno 2020

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Dirigere una conferenza su un tema caldo come la pandemia nelle carceri può essere un’esperienza che genera agitazione, ma allo stesso tempo è stato un momento molto istruttivo. Spesso ci si rende conto, leggendo avvincenti articoli di giornale, di quanto sia facile farsi trasportare dall’idea più semplice e più comoda, sulla base della propria sensibilità, invece di provare a riflettere sulla complessità delle questioni. Ci si dimentica di porsi quelle domande anche scomode che però mantengono vivo il senso critico e il continuo bisogno di verità.

Il tema sul quale volevamo fare chiarezza è quello delle scarcerazioni dei boss mafiosi durante la pandemia da Covid-19. È importante ricordare qui quanto la vicenda sia stata cavalcata dai giornali e dai media come un grande scandalo, e quanto la realtà sia più complessa e legata alle gravi condizioni degli istituti penitenziari, alla poca trasparenza nelle motivazioni dei provvedimenti e alla lentezza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) nel fare chiarezza su quello che stava succedendo. Dai titoli dei giornali al grande pubblico si evidenzia però una cosa sola: i numeri delle scarcerazioni sono troppo alti e questo è inaccettabile. La Repubblica parla di 376 boss scarcerati e sono subito dibattito e polemica.

Sono veramente tutti dei boss mafiosi? Sono tutti detenuti al 41 bis, ovvero in regime di carcere duro? I dati alla fine parlano chiaro, i detenuti al 41 bis per cui sono stati disposti i domiciliari sono quattro, tra cui hanno fatto notizia in particolare Pasquale Zagaria, ritenuto una delle menti del clan dei Casalesi e Francesco Bonura, boss siciliano, fedelissimo di Provenzano. E gli altri?

Covid e boss scarcerati: cos'è successo veramente

La ricerca del colpevole

Molti di loro sono detenuti in regime di alta sicurezza, quindi difficile definirli tutti boss, e tanti sono addirittura in custodia cautelare, ovvero in attesa di giudizio. Per di più i provvedimenti sono presi dai magistrati di sorveglianza in base a ordinamenti già esistenti e non dal governo, come dicono in molti. Pochi si soffermano su queste osservazioni, l’opinione pubblica è in fibrillazione, cerca la vendetta, e quindi non ci si può soffermare sui dati, sul fare chiarezza, bisogna subito cercare un colpevole.

Nel giro di poco tempo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si trova sotto le pressioni di stampa e opinione pubblica. Qualche testa deve cadere, alcuni mettono in dubbio la sua “antimafiosità”. Alla fine si trova il giusto compromesso, il direttore del Dap Francesco Basentini si dimette e viene nominato al suo posto Bernardo Petralia insieme al vicedirettore Roberto Tartaglia, due magistrati antimafia, che sembrano proprio un bel modo per placare le acque agitate dell’opinione pubblica.

Questa ricostruzione forse un po’ dura e un po’ romanzata di quello che è successo, fa riflettere sulla nostra società e sul modo che abbiamo di reagire di fronte a questioni delicate e fondamentali: la ricerca del colpevole. Come cittadini e attivisti ci chiediamo spesso quale sia il nostro modo di porci di fronte al tema mafia e con quali strumenti pensiamo di sconfiggere un’organizzazione mafiosa. La frase di Giovanni Falcone che troppo spesso abbiamo sentito ripetere in questi anni – “La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha avuto un inizio e avrà anche una fine” –, più la si ripete e più perde di senso se non la si accompagna con azioni concrete. Se pensiamo seriamente che possa avere una fine, come pensiamo di porla? La lotta civica alle organizzazioni criminali parte da noi cittadini “antimafiosi” e siamo noi che dobbiamo interrogarci su tali questioni. Alla luce di ciò, pensiamo veramente che il 41 bis, il carcere duro, sia sufficiente?

Secondo noi il 41 bis è un regime speciale che serve indubbiamente per impedire ai vertici mafiosi di continuare a comandare dal carcere, ma non dobbiamo pensare che questa possa essere l’unica e imprescindibile misura di contrasto. Le vie di contrasto sono tante e diverse e il carcere duro dovrebbe essere solo l’estrema ratio.

Amunì e Liberi di scegliere

Da più di dieci anni Libera porta avanti il progetto Amunì che si rivolge a ragazzi minori che hanno commesso reati e ai quali viene concessa la misura della messa alla prova. Qui a Milano il progetto prende il nome di Andemm e i ragazzi, insieme ai volontari di Libera, vengono accompagnati a conoscere le storie delle vittime innocenti, a fare attività nei beni confiscati della città, a conoscere luoghi d’Italia che non avevano mai avuto la possibilità di vedere: questo stimola in loro dubbi, domande e perplessità su quello che pensano sia la mafia e sul loro modo di stare nella società. Domande che li portano ad ampliare gli orizzonti e acquisire più consapevolezza delle loro scelte. Alcuni ragazzi si appassionano così tanto a Libera che decidono di continuare il loro percorso attivamente come cittadini.

Dalla Calabria è partito il protocollo “Liberi di scegliere” divenuto famoso anche grazie al film di Rai1 e al libro scritto dal magistrato Roberto Di Bella che ne è stato il fautore. Questo protocollo permette ai figli e alle madri delle famiglie di ‘ndrangheta di intraprendere percorsi alternativi per allontanarsi dai contesti mafiosi e dare la possibilità di scegliere una vita diversa da quella dei propri familiari finiti in carcere o ammazzati. È un percorso lungo e difficile, che punta alla prevenzione per dare la possibilità anche ai ragazzi nati in contesti di ‘ndrangheta di scegliere il loro destino.

Si resti arrinesci, ovvero: rinascere in terra di 'ndrangheta

Se davvero riusciamo a vedere il bene che portano tali progetti, allora dovremmo, se ci definiamo società civile, essere capaci di vedere anche delle misure alternative al carcere, che permettano alle persone di intraprendere percorsi di riflessione e rieducazione. È certo che per un mafioso, soprattutto per un boss, il 41 bis è un procedimento necessario per interrompere ogni legame con l’organizzazione, ma in un secondo momento dovrebbero essere concessi gli strumenti adatti a intraprendere un percorso di revisione della propria storia personale e di rieducazione, oltre al diritto alla salute garantito a ogni individuo.

Forse questa è una visione che non troverà larga approvazione. Tuttavia, se si presta attenzione e si tramuta in realtà quanto previsto dal nostro testo costituzionale all’articolo 27 – norma che traccia le caratteristiche delle pene e la funzione rieducativa a cui una sanzione deve tendere – anche in caso di criminali più efferati, come possono essere i soggetti affiliati ad associazioni mafiose, l’obiettivo rieducativo non può in nessun caso essere tralasciato

Infine, una riflessione può essere lasciata aperta: rifacendoci alle parole che il professore Davide Galliani, docente di Diritti fondamentali all’università di Milano, ha speso nel nostro incontro, lo sforzo che ogni società che si consideri civile è tenuta a fare riguarda proprio lo sguardo – forse attualmente troppo giudicante? – con cui vengono visti e catalogati i soggetti detenuti. Non bisognerebbe forse guardare oltre il reato, scoprendo magari la presenza di una persona?

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