17 luglio 2024
Il vecchio mafioso irriducibile e la donna coraggiosa che lo denuncia. È un presente che si lega ancora al passato quello di Canicattì, il paese dell’entroterra siciliano dove nacque Rosario Livatino, il giudice beato ucciso dalla stidda il 21 settembre 1990. L’omicidio fu pianificato da un gruppo criminale a cui apparteneva Antonio Maira, che proprio il magistrato nel 1986 aveva fatto condannare a oltre 22 anni di carcere per traffico di droga, rapina e possesso di armi.
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Una pena durissima che, secondo alcuni collaboratori di giustizia, portò alla decisione di eliminare Livatino. Il 9 luglio scorso Maira, oggi 74enne, è stato arrestato per estorsione aggravata dal metodo mafioso insieme al nipote acquisito Antonio La Marca, 34 anni, e a Giovanni Turco, 24 anni. “Dalla mafia ci si dimette solo con la morte”, diceva il giudice, che parlava e praticava la misericordia anche nei confronti dei criminali, conosceva la realtà mafiosa e la affrontava con efficacia, tanto da risultare un nemico da abbattere.
Da queste parti la mafia pretende ancora di comandare con la violenza, la stessa che il “piccolo giudice” combatteva e ne decise la morte. Un quadro preoccupante secondo la Dda di Palermo, che da qualche tempo ha deciso di rafforzare l’attività su tutto l’agrigentino. Maira è il simbolo di una terra che non vuole cambiare. Dopo aver scontato 17 anni di carcere ed essere tornato libero nel 2004, ha subito ricominciato a delinquere. E neppure la morte di suo figlio, ucciso dal clan rivale nel corso della guerra tra stidda e Cosa nostra, lo ha fatto desistere.
Dopo 17 anni di carcere, Maira è tornato libero nel 2004 e subito ha ripreso a delinquere. Neppure la morte di suo figlio, ucciso da un clan rivale, lo ha fatto desistere
Nel dicembre 2019 Maira era stato arrestato insieme al fratello per usura, nell’ambito dell’inchiesta condotta da procura di Agrigento, squadra mobile e carabinieri di Canicattì. Le vittime erano piccoli imprenditori della zona in difficoltà, costretti a pagare con un tasso d’interesse del 120 per cento annuo. Tre anni fa, sempre insieme al fratello, il suo nome era di nuovo finito nelle carte degli inquirenti, ancora per una storia di usura e mafia, con le forze di polizia che avevano sequestrato cinque appartamenti con relative pertinenze, tre magazzini, 19 rapporti bancari/finanziari e un suv.
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Un curriculum criminale di tutto rispetto, come si legge nei documenti della polizia. “Personaggio di primo piano nel panorama delinquenziale della provincia agrigentina. Mafioso ante litteram, ha infatti militato già negli anni ‘80 nella stidda, clan notoriamente contrapposto a Cosa nostra, potendo la cosca disporre a Canicattì di una nutrita e pericolosa cellula, di cui appunto egli faceva parte”.
Rosario Livatino, il giudice giusto e beato
Maira, si legge ancora, “per conto del suo paracco (l'ombrello, così gli sttidari chiamano la frangia territoriale ndr) si occupava del traffico di droga e delle rapine, fece parte di un commando che nel novembre 1983 compì una rapina in un’armeria di Favara, ove furono trafugate diverse armi, altresì di altro gruppo di rapinatori che nello stesso periodo trafugò 27 milioni di lire nel corso di un rapina compiuta presso una banca di Palma di Montechiaro, dopo aver immobilizzato la guardia giurata e sottrattagli la pistola”.
Tornando all’ultimo arresto, le indagini condotte dalla squadra mobile di Agrigento e dal commissariato di Canicattì, coordinati dalla Dda di Palermo, sono state avviate nell’aprile dello scorso anno, dopo il danneggiamento e l’incendio della porta di un magazzino a Canicattì. In particolare, è emerso che Maira e gli altri due arrestati, per preservare gli interessi economici e imprenditoriali del titolare di un’autofficina (il nipote di Maira), avrebbero costretto le vittime dell’estorsione, una donna e la sua famiglia, a non concedere in affitto un magazzino di loro proprietà a una persona che avrebbe potuto fare concorrenza all’officina di famiglia.
I tre si sarebbero recati a casa della donna per rimarcare l’appartenenza alla stidda, minacciandola di farle “la faccia tanta” se mai avesse ceduto il magazzino. È il 24 marzo 2023 quando Maira si presenta con i due giovani complici: “Mi conosce a me? Sa chi sono io? Si si..in forma mafiosa ti sto dicendo che non si deve affittare quel magazzino..quella zona l’ho creata io e comando io”.
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La donna a quel punto risponde: “Si, certo che la conosco… Antonio Maira… certo che lo conosco…”. Il colloquio è stato registrato dalle vittime ed è significativo della condotta mafiosa. La conversazione prosegue e si inserisce anche il fratello della signora: “Questo motivo per cui non glielo devo affittare qual è?”. “Non gliene devi affittare perché non c’è motivo... Che minchia sei malandrino? le pompe… saltiamo in aria… la proprietà ci dobbiamo godere… la proprietà”.
E ancora: “Mi conosci a me? Qual è il tuo problema? Tuo figlio non ne deve affittare…”. L’uomo controbatte: “E perchè non ne devo affittare? Mi fai saltare in aria?”. Maira è esplicito. “Quel magazzino non si deve affittare” ordina, aggiungendo che i proprietari “dovevano stare attenti alle bombole e alla benzina”, perché “chi gli toglie il pane a mio nipote io gli tolgo la vita... mi conosce a me? Sa chi sono io? Tuo figlio non ne deve affittare”.
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Pochi giorni dopo qualcuno dà fuoco alla saracinesca dell’immobile, ma la donna invece di arretrare decide di denunciare. E ancora una volta per Maira scatta l’arresto. In questa vicenda emerge il coraggio e la dignità di gente umile che non si è voltata dall’altra parte. Persone semplici, due anziani coniugi e i loro figli, che con determinazione hanno dato un significativo contributo alle indagini, arrivando addirittura a filmare i propri estorsori nel momento in cui questi li minacciavano.
Di recente, la pericolosità della stidda agrigentina è stata confermata dal procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia, che nei mesi scorsi in commissione parlamentare antimafia ha spiegato. “Per un certo periodo di tempo si è ritenuta sostanzialmente debellata, invece oggi registriamo la nuova presenza di esponenti della vecchia organizzazione criminale e di nuovi soggetti che si avvicinano al fenomeno stiddaro per ricostruire un’organizzazione in qualche modo dialogante con Cosa nostra”.
A rafforzare le preoccupazioni di de Lucia hanno contribuito, nel febbraio 2021, gli arresti di Antonio Gallea, ritenuto capo degli stiddari di Canicattì e uno dei mandanti dell’omicidio Livatino, e Santo Rinallo. Entrambi, il 17 aprile 1990, sono stati condannati a quattro anni per porto e detenzione illegali di una pistola con matricola abrasa e di materiale esplodente da un collegio giudicante di cui faceva parte Livatino, che fu l’estensore della motivazione della sentenza, anche questa tra i motivi che portarono gli stiddari a commettere l’omicidio.
Per il procuratore di Palermo de Lucia “alcuni storici appartenenti all’organizzazione hanno sfruttato la disciplina premiale prevista per i detenuti ergastolani, sono tornati ad agire sul territorio e hanno rivitalizzato la stidda”
Pur ergastolani, Gallea e Rinallo erano riusciti a ottenere la semilibertà, lavorare all’esterno della struttura carceraria e, addirittura, svolgere attività di volontariato. Sul punto, de Lucia ha osservato come “alcuni storici appartenenti all’organizzazione sono tornati a svolgere attività legate all’organizzazione stessa dopo aver ottenuto la declaratoria di impossibilità della collaborazione. Hanno, cioè, sfruttato la disciplina premiale prevista per i detenuti ergastolani per ritornare ad agire sul territorio con i metodi già collaudati in passato e così hanno rivitalizzato in qualche misura la stidda stessa".
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"L’istituto della impossibilità della collaborazione – continua de Lucia – è stato usato da soggetti che non potevano pentirsi, ma hanno goduto della possibilità del pentimento impossibile per tornare a delinquere. Questo, in qualche misura, è merito loro che sono stati bravi nel fare passare questa cosa, ma è anche colpa nostra, nel senso che le nostre investigazioni non sono state capaci di prevedere la non interruzione di quei contatti con l’ambiente criminale che, appena usciti, hanno ripristinato. Le indagini lo hanno evidenziato e questo è un segnale che ci induce a prestare particolare attenzione rispetto a questi istituti”.
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