Giorgia Meloni e Alfredo Mantovano. Foto: Ansa
Giorgia Meloni e Alfredo Mantovano. Foto: Ansa

Droga, che fine ha fatto il Pand?

Il piano che avrebbe dovuto riscrivere le politiche sulle dipendenze passa nelle mani del governo guidato da Giorgia Meloni e rischia di arenarsi. Ma il terzo settore promette battaglia: "Non sprechiamo quanto fatto"

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoGiornalista

25 novembre 2022

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Doveva essere un primo passo per cambiare l’approccio paternalistico alle sostanze, fermo agli anni Novanta, e soprattutto per garantire gli stessi servizi a chi consuma droghe, a prescindere dalla regione in cui abita. Ma ora rischia di rimanere un nulla di fatto, anche se il terzo settore promette battaglia per non sprecare il lavoro compiuto. Il Piano di azione nazionale dipendenze (Pand) 2022-2025 è il testo che avrebbe dovuto ridefinire le politiche italiane sugli stupefacenti, ripensando gli interventi in "un’ottica comportamentale e spostando il focus dall’utilizzo di una droga a tutto ciò che può spingere una persona a farne uso", ha spiegato a lavialibera l’ex ministra con delega alle politiche antidroga Fabiana Dadone, aggiungendo che "esistono dipendenze che non sono legate a sostanze, ma ne hanno gli stessi costi sociali e conseguenze deleterie sulla vita degli individui e delle loro famiglie".

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Oltre le "stanze del buco", l’obiettivo della destra

Un documento che per un anno ha visto al lavoro 271 esperti del settore e che non è piaciuto alla destra, a cui ora passa il testo, nonostante faccia della prevenzione il proprio caposaldo. "Il Pand è inconsistente, inattuabile e prevede una normalizzazione del consumo di stupefacenti", ha fatto sapere Maria Teresa Bellucci, responsabile nazionale del Dipartimento dipendenze e terzo settore di Fratelli d’Italia. In particolare, sono stati due i riferimenti sgraditi a Bellucci: i servizi di drug checking e le stanze del consumo sicuro. I primi offrono l’analisi chimica delle sostanze, accompagnandola a una consulenza professionale alla persona che le vuole assumere e – si legge nel documento – "sono stati riconosciuti come strumenti di tutela della salute del singolo e della collettività vista la capacità di prevenire l’assunzione di composti pericolosi nonché validi strumenti di monitoraggio del mercato delle sostanze stupefacenti".

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Le seconde sono degli spazi attrezzati per garantire ai tossicodipendenti condizioni igieniche e sanitarie adeguate, in modo da prevenire la trasmissione di patologie e intervenire in caso di overdose. Spazi che sono tutt’altro che "stanze del buco", come le ha definite Bellucci. Di "attacchi strumentali" parla Riccardo De Facci, presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), federazione a cui aderiscono 260 organizzazioni che operano nei settori del disagio e dell’emarginazione, coinvolta nell’elaborazione del piano. "Si tratta di servizi che esistono in molti altri paesi europei e il cui scopo non è incentivare il consumo, ma tutelare la salute di chi fa già uso di sostanze". Per De Facci, la destra vuole far naufragare il Pand per un’altra ragione: "Il piano punta a uniformare i servizi offerti nelle diverse regioni, sfavorendo alcune grandi strutture private legate alla destra". 

Disparità nel mirino

In realtà, leggendo il documento di oltre 400 pagine è evidente che lo spazio dedicato al drug checking e alle stanze del consumo è marginale. Gran parte degli interventi è destinato alla prevenzione, si propone di ridurre la domanda e le misure previste includono campagne social, formazione di docenti e dirigenti scolastici. Non c’è lo scatto in avanti chiesto da Forum droghe, l’associazione che dal 1995 lotta per una riforma delle politiche pubbliche sugli stupefacenti, che aveva proposto di non schiacciare la questione sulla prevenzione per evitare lo stigma, e di non parlare di dipendenze ma di diritto alla salute. Grazie alla società civile, però, le persone che usano droghe sono state riconosciute come protagoniste delle azioni che le riguardano, non solo come soggetti bisognosi di assistenza e incapaci di intendere le norme. Così come sono state riconosciute le strategie di riduzione del danno, cioè l’insieme di azioni dirette a ridurre le conseguenze negative del consumo di droghe.

Grazie alla società civile, le persone che usano droghe sono state riconosciute come protagoniste delle azioni che le riguardano, non solo soggetti bisognosi di assistenza

Di certo uno dei temi più importanti su cui il Pand interviene sono proprio le barriere che limitano l’accesso ai servizi, definite una sfida in costante evoluzione. Il primo obiettivo è uniformare i budget a disposizione delle varie regioni per il trattamento dei tossicodipendenti. Al momento, gli enti adottano criteri diversi per stabilire quali tipi di servizi possono essere accreditati e quindi pagati dallo Stato. In più non hanno a disposizione le stesse risorse. Di conseguenza, le opportunità dell’utente cambiano a seconda del luogo in cui vive. Un’altra disparità regionale riguarda la riduzione del danno, che nel 2017 è stata inserita nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), cioè le prestazioni che il servizio sanitario nazionale deve fornire a tutti i cittadini gratis o sotto pagamento di una quota. Eppure, solo il Piemonte e l’Emilia Romagna le forniscono, rendendo necessaria l’istituzione "di un tavolo di controllo e di standard condivisi per garantire un servizio di qualità e uniforme sul territorio". 

Per la ministra Dadone la Conferenza nazionale sulle droghe è una "occasione di riflessione indispensabile"

Il testo prevede poi il ricorso al budget di salute, una sorta di fondo a disposizione dell’individuo che gli permetterebbe di privilegiare cure di lungo periodo all’interno delle comunità di appartenenza. Importante è anche la parte dedicata alle carceri, in cui si chiede di potenziare le misure alternative alla detenzione e attuare gli istituti a custodia attenuata per il trattamento dei tossicodipendenti: strutture, o sezioni penitenziarie, dove sono realizzati programmi terapeutici diretti alla riabilitazione fisica e psichica del detenuto. Sono previste anche l’inclusione delle azioni di riduzione del danno, la cui assenza all’interno del carcere "rappresenta una negazione dei diritti umani", e l’istituzione di un agente di rete, una persona "capace di favorire il reinserimento sociale di un detenuto nel territorio". 

Politica immobile

Tutto questo potrebbe non diventare mai operativo. E più che un rischio, è quasi una certezza. È saltata la discussione in conferenza Stato-Regioni, chiamata a esprimere sul piano un parere non vincolante ma significativo nella grammatica istituzionale, dato che proprio alle regioni spetterebbe il compito di renderlo attuativo. Ed è saltato anche l’inserimento in un decreto ministeriale, annunciato a lavialibera dall’ex ministra Dadone. Il lavoro passa nelle mani del nuovo governo, intenzionato a far finta che la conferenza nazionale sulle droghe di Genova non sia mai esistita. Storia lunga e travagliata quella della conferenza: la legge stabilisce che debba essere convocata ogni anno, eppure dal 2010 al 2021 l’appuntamento è saltato. Un simbolo dell’immobilismo politico sul tema, che si trascina dal 9 ottobre 1990, data dell’approvazione della norma che ancora oggi regola l’argomento: il Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. 

Dopo SanPa il tema delle droghe resta intoccabile

Dei piccoli passi avanti sono stati fatti durante il governo di Mario Draghi, con l’assegnazione della delega alle politiche di prevenzione, monitoraggio e contrasto alla droghe: un ufficio vacante da anni. L’incarico è stato affidato alla grillina Dadone, che a fine legislatura ha raccontato come all’intero dipartimento mancasse da tempo una guida politica. Il mandato è andato avanti non senza polemiche da parte del centrodestra. "Grave e deludente che per un compito così delicato come la lotta alle dipendenze sia stato scelto un esponente politico firmatario di proposte per legalizzare la cannabis", aveva dichiarato già dopo la nomina di Dadone la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, precisando che il suo partito avrebbe portato avanti la battaglia contro la legalizzazione della droga. Un anno dopo, forte della vittoria alle urne, Fratelli d’Italia è tornata alla carica prendendo di mira il piano.

Giorgia Meloni aveva promesso di portare avanti la battaglia contro la legalizzazione della droga. Dopo la vittoria alle urne, è tornata alla carica prendendo di mira il piano

Appello alla società civile

"Al mio successore chiedo di spogliarsi dei panni del partito e considerare il documento come frutto di un impegno collettivo", è stato l’appello lanciato dall’ex ministra prima di lasciare l’incarico. "Il lavoro fatto non deve essere sprecato", incalza Stefano Vecchio, presidente di Forum droghe, che non ha risparmiato critiche al piano: "Non prevede atti di indirizzo, cioè gli strumenti con cui le regioni dovrebbero recepirlo". Vecchio crede nell’importanza di salvaguardarne alcune parti, soprattutto in materia di istituti penitenziari, di ampliamento delle alternative alla detenzione verso l’inclusione sociale, di servizi per tutelare la salute delle persone che usano droghe e di indirizzi per uniformare a livello nazionale la riduzione del danno. "Per colmare i vuoti lasciati dalla politica, la società civile potrebbe lavorare con le città e le regioni progressiste", conclude. Positivo anche De Facci, che afferma: "In ogni caso, utilizzeremo il Pand come strumento di lavoro". Al momento, però, nulla cambia. 

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