16 dicembre 2022
Non un insieme di cause che portano allo stesso effetto, ma una “regia unica”. Per la commissione parlamentare antimafia della scorsa legislatura, presieduta da Nicola Morra, resta forte il sospetto che le proteste nelle carceri tra il 7 e l’11 marzo 2020, dopo le prime restrizioni per limitare il contagio del Covid, siano state manovrate da qualche organizzazione criminale, anche di tipo mafioso, in combutta con i parenti dei detenuti e gli anarchici. Lo sostiene la relazione che tira le somme delle audizioni dedicate al tema, delle informazioni ottenute dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dnaa) e da alcune procure. Un risultato diverso da quello a cui è giunta la commissione ispettiva voluta dall’allora direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Dino Petralia, e guidata da Sergio Lari, magistrato antimafia in pensione, secondo cui invece questa ipotesi è “stata avanzata da alcuni organi di stampa ma anche da qualche sindacato di polizia penitenziaria nei primi giorni successivi alle rivolte”, ma viene smentita dalla ricostruzione dei fatti.
Le proteste – si legge nel documento pubblicato a fine ottobre dalla Commissione antimafia – “sono chiaro sintomo di un malessere profondo del sistema carceri che, se non risolto, ben presto, alla prima nuova occasione esterna di tensione (una nuova ondata pandemica, un nuovo evento eccezionale esterno ed estraneo alle carceri, un nuovo provvedimento normativo in tema di concessione di benefici penitenziari, ecc.) diventerà un’inevitabile fonte di innesco di nuovi e ancora più gravi disordini nelle carceri”. Un sovraffollamento costante, personale della polizia penitenziaria insufficiente e carenza di altro personale, malessere diffuso che sfocia in suicidi, sia dei detenuti, sia del personale. Queste erano e sono le condizioni delle carceri italiane.
Già prima dell’emergenza pandemica, la Dnaa aveva segnalato più volte la situazione delle carceri italiane e aveva per questo motivo organizzato alcuni incontri con le procure distrettuali per via di “numerosi segnali di affievolimento del complessivo sistema di prevenzione all’interno degli istituti penitenziari registrati sin dal 2019”. In quelle riunioni veniva confermato il quadro di una situazione “ingestibile e, di fatto, fuori controllo già in fase pre-pandemica”. Ed è in questo contesto che si innestano le proteste.
Tutte le emergenze del carcere
Secondo le ricostruzioni della Commissione, prima dei provvedimenti del governo e del ministero della Giustizia, tra i detenuti era diffusa l’idea che stesse per arrivare un indulto o un’amnistia. Pochi giorni prima del decreto della presidenza del consiglio dei ministri dell’8 marzo, cioè della decisione con cui sono state introdotte misure per contenere il contagio limitando gli ingressi in carcere (quindi interrompendo le attività svolte da volontari esterni e le visite dei familiari, ad esempio) e le uscite dei detenuti (quelli ammessi al lavoro all’esterno), “già circolavano in ambiente carcerario sussurri, speranze, voci diffuse ad arte che si vestivano da indiscrezioni fintamente riservate, sulla possibilità”.
Alla metà di febbraio, ad esempio, “si verificavano i primi episodi (con stesura anche di documenti) presso il carcere di Lodi, Genova Marassi e Padova”, dove “i detenuti, prendendo spunto da alcune trasmissioni radiofoniche in cui si parlava di possibile concessione di amnistia e/o indulto invitavano alla ‘battitura ad oltranza’, e in uno di questi si faceva esplicito riferimento ad una protesta da effettuarsi il successivo 9 marzo”.
Anche il Nucleo ispettivo centrale (Nic) della polizia penitenziaria, in una nota del luglio 2020 (citata nella relazione della commissione ispettiva del Dap), segnavala che già in quel periodo negli istituti penitenziari di Lodi, Messina, Genova e Rieti c’erano state proteste (come la battitura delle inferriate) “a causa del sovraffollamento”. Secondo gli investigatori della polizia penitenziaria, erano state “alimentate da un ‘passaparola’ tra i detenuti a seguito di notizie apprese da Radio Radicale ed altre fonti in merito ad una possibile concessione di amnistia ed indulto in conseguenza della diffusione del virus”.
Di lì a poco, a partire dal 7 marzo nella casa circondariale di Salerno, si diffondono le proteste in 53 penitenziari, a cui si aggiungono 26 carceri dove sono avvenute manifestazioni più pacifiche.
“La stragrande maggioranza era composta da delinquenti abituali comuni o soggetti di basso profilo, alcuni vicini alla criminalità organizzata anche straniera, facilmente malleabili allo scopo”Commissione parlamentare antimafia
Secondo una nota del Nic, hanno partecipato alle rivolte 7.517 detenuti. “Oltre il 12 per cento dell’intera popolazione carceraria”, sintetizza la commissione parlamentare che sottolinea come, del totale, soltanto 2.034 (il 27 per cento dei partecipanti) sono stati identificati e denunciati e 434 non sono stati nemmeno identificati: “Da ciò si evince che il 68 per cento dei rivoltosi, sebbene identificati, non avranno alcuna conseguenza sul piano penale (né è noto alla Commissione quali siano state le misure disciplinari eventualmente adottate dall’Amministrazione penitenziaria)”, afferma l’Antimafia secondo cui “non sembra – o almeno, la Commissione non ha notizia – che vi sia stata un’azione tesa comunque alla individuazione dei promotori della protesta e degli eventuali ispiratori, coordinatori o mandanti esterni della stessa, anche avviando gli opportuni procedimenti disciplinari”. Al contrario, molte inchieste hanno fatto emergere violente punizioni sui detenuti, come quelle al carcere di Santa Maria Capua Vetere e altre carceri.
Sui partecipanti alle rivolte, i magistrati della Dnaa hanno potuto verificare che sono state attuate soprattutto da detenuti comuni e solo in alcuni casi i principali fautori erano reclusi nei circuiti Alta sicurezza (come a Melfi). “La stragrande maggioranza era composta da delinquenti abituali comuni o soggetti di basso profilo, alcuni vicini alla criminalità organizzata anche straniera, facilmente malleabili allo scopo”, sostiene la commissione antimafia, secondo cui “particolare attenzione merita poi il caso delle sommosse romane nel carcere di Rebibbia N.C. (Nuovo complesso, ndr), avvenute il primo giorno di vigenza del decreto, con l’opera di incitamento, sostegno e coordinamento che si è svolto su alcuni media riferibili all’area antagonista o su alcuni gruppi Facebook gestiti da un detenuto agli arresti domiciliari, nonché il flash-mob della sera dell’8 marzo sul Gianicolo ad opera di soggetti non identificati che, al grido di ‘Libertà! Libertà!’, si indirizzavano verso l’esterno dei padiglioni del carcere Regina Coeli”. Ad alcuni assembramenti non autorizzati vicino a Rebibbia, l’11 marzo vengono “esponenti anarco-insurrezionalisti già noti alle forze dell’ordine”.
Covid e boss scarcerati, cosa è successo veramente
La partecipazione della “bassa manovalanza non è un’argomentazione tale da escludere a priori la possibilità di una regìa esterna o di una promozione, facilitazione o placet di Commissione parlamentare antimafia
Il fatto che abbiano partecipato alle proteste soprattutto detenuti della “bassa manovalanza non è un’argomentazione tale da escludere a priori la possibilità di una regìa esterna o di una promozione, facilitazione o placet di matrice mafiosa”, sostiene la commissione parlamentare. Anzi, secondo quanto si legge nella relazione, per la Dnaa quest’ipotesi sarebbe dimostrata dalle tante “manifestazioni di protesta e rivolta che sembrerebbero essere state in qualche modo coordinate”, anche perché c’è una “concomitanza temporale tra i disordini interni ad alcuni penitenziari in rivolta e le manifestazioni e i sit-in effettuati nei perimetri esterni” che “in alcuni casi hanno fatto ipotizzare l’esistenza di comunicazioni illecite tese a favorire una regìa occulta dei disordini”.
Per i magistrati antimafia le manifestazioni all’esterno delle strutture, “dove si mescolano familiari dei detenuti, soggetti vicini alla criminalità organizzata, ma anche gruppi anarchici” (sintesi della relazione), fanno pensare a un “disegno di accesa propaganda ‘istigatoria’, tesa a sollecitare i detenuti a intraprendere iniziative progressivamente sempre più intense al fine di sottoporre sempre più a dura prova la sicurezza del sistema penitenziario”, sostiene la Dnaa.
La procura nazionale antimafia nota anche come cambi, a seconda della differente organizzazione mafiosa di appartenenza, “il modus operandi dei detenuti per mafia”. Ad esempio, i camorristi manifestano “in maniera plateale e violenta”, i mafiosi siciliani sembrano partecipare “quasi simbolicamente alle contestazioni, tanto che, nonostante le numerose manifestazioni avvenute negli istituti siciliani, i danni alle strutture sono stati molto contenuti”. Quelli legati alla ‘ndrangheta, invece, non avrebbero partecipato a “nessuna manifestazione di protesta” e anzi “in tutti gli istituti di detenzione della Calabria non sono emerse criticità, se non una dimostrazione pacifica nel carcere di Castrovillari”.
La commissione parlamentare antimafia di Morra insiste sulla sua ipotesi: “Il quadro emerso dall’analisi svolta dalla Dnaa e dalle diverse indagini sul territorio conferma l’ipotesi di una regia unica e di un’azione coordinata che ha coinvolto la popolazione detenuta e soggetti esterni al carcere, come dimostrato dal parallelismo tra i disordini interni che hanno contestualmente coinvolto un gran numero di istituti penitenziari e quelli creati sulle pubbliche vie adiacenti o nelle prossimità degli istituti penitenziari”.
A sostegno della sua ipotesi, c’è anche la dichiarazione resa da un agente di polizia penitenziaria del carcere di Trani audito dal comitato di approfondimento sul 41bis. L’uomo ha riferito che “un detenuto uscendo dall’area riservata alle telefonate (consentite) si rivolgeva agli altri detenuti al di là dello sbarramento dicendo ‘alle 4 ... hanno detto alle 4 ... tutti pronti alle 4’”. D’altronde la commissione ricorda che negli istituti penitenziari “sono ampiamente diffusi telefoni cellulari in uso ai detenuti senza alcun controllo” e che nei controlli dell’aprile 2020 sono stati scoperti “348 telefoni cellulari nella disponibilità di oltre duecento detenuti ristretti nei circuiti di Media e Alta sicurezza”.
E quale sarebbe la ragione di questa protesta ipoteticamente, secondo la Commissione guidata da Morra, coordinata dalla criminalità? Le limitazioni dei colloqui, sospetta il comitato di Morra, avrebbe impedito l’accesso di droga da spacciare nelle carceri e l’invio di messaggi e ordini all’esterno, ragioni che da sole confortebbero l’ipotesi della regia unica “organizzata in questo caso dai detenuti in Alta sicurezza i quali si sarebbero limitati a manovrare i detenuti comuni e a incitarli alle manifestazioni più gravi, ostentando estraneità agli eventi e un atteggiamento di resistenza meramente passiva”. Alcuni casi, come quello foggiano, in cui è avvenuta una clamorosa evasione di massa, dimostrerebbero invece il contrario: la rivolta è avvenuta proprio per l'assenza di una regolazione dei comportamenti da parte di boss di alto calibro, spostati in altri istituti di pena poco prima dello scoppio della pandemia.
Carcere di Foggia, evasi per assenza di boss
A leggere invece la relazione della commissione del Dap, guidata da Sergio Lari e voluta dall’allora direttore Petralia e dal vice Roberto Tartaglia, emerge uno spaccato ben diverso. Approfondendo i casi più gravi di 22 carceri più coinvolte dalla proteste, si arriva a una conclusione opposta a quella di Morra: “Se per un verso è stato possibile escludere l'esistenza di una regia occulta da parte della criminalità organizzata ovvero di organizzazioni anarchiche o antagoniste, per altro verso, è risultato che, all'origine delle violente sommosse, vi sono stati più fattori, che si sono combinati tra loro sulla base di dinamiche diverse”.
In moltissimi casi, non c’erano detenuti mafiosi e non sono stati rilevati contatti con le organizzazioni mafiose all’esterno. Si trattava soprattutto di detenuti comuni, magari stranieri o con problemi di droga, spaventati dal Covid e spinti dall’emulazione di quanto avveniva altro. Un malcontento che, in certi casi, era alimentato dagli antagonisti o dai familiari radunati fuori dalle strutture.
A Salerno, lì dove è cominciato tutto, il foglio con le richieste dei reclusi - chiamato dai media “papello”, un ammiccamento al papello con le richieste di Cosa nostra allo Stato dopo le stragi - conteneva proposte di carattere igienico-sanitarie, scritte dopo la richiesta di un funzionario di polizia;
A Poggioreale, i manifestanti erano detenuti comuni e soltanto quattro appartenevano al regime di alta sicurezza. Anzi, “la partecipazione di appena quattro detenuti appartenenti all'area di alta sicurezza (gli altri non hanno partecipato in alcun modo) non può deporre per un ruolo di regia della criminalità organizzata”;
A Padova “nessuno dei 17 detenuti allocati nella sezione AS1 (Alta sicurezza 1, destinato ai mafiosi, ndr) ha partecipato alla rivolta, né si è fatto coinvolgere in iniziative di protesta”;
A Foggia, dove la protesta è sfociata in una maxi evasione, “erano detenuti soltanto soggetti appartenenti alla criminalità medio - piccola, poiché la sezione di alta sicurezza era stata chiusa alcune settimane prima della rivolta”;
A Melfi, “una parte dei detenuti afferenti al circuito alta sicurezza, tra cui i calabresi, avevano preso le distanze dalla protesta, restando nelle loro camere o a giocare a carte in socialità”. Nel carcere lucano, “la rivolta ha coinvolto soltanto una fascia dei detenuti della sezione alta sicurezza – foggiani, baresi e campani – che sembra abbiano agito autonomamente, in assenza cioè di una regia esterna della criminalità organizzata di appartenenza e di un collegamento diretto tra i diversi istituti”;
A Siracusa “i detenuti del reparto alta sicurezza non hanno, infatti, manifestato alcuna adesione all'iniziativa dei rivoltosi, neppure in forma pacifica”;
Al carcere Pagliarelli di Palermo, i reclusi del circuito “di alta sicurezza si sono limitati a manifestare adesione alla protesta con la battitura delle inferriate e l'astensione dal vitto dell 'Amministrazione e dagli acquisti al sopravvitto, astenendosi da forme violente di partecipazione. A parte questa limitata partecipazione, non sono emersi elementi che inducano a ritenere un ruolo di coordinamento della criminalità organizzata, ed in specie di ‘cosa nostra’;
A Trapani, “la sezione alta sicurezza non ha partecipato minimamente ai disordini”, ha spiegato la direttrice del carcere.
Allora, come si era fatta strada l’ipotesi di una regia comune dei mafiosi, di una “strategia occulta orchestrata a tavolino”? “Era stata avanzata da alcuni organi di stampa ma anche da qualche sindacato di polizia penitenziaria nei primi giorni successivi alle rivolte”, ipotizzando che la sospensione dei colloqui in presenza avrebbe fermato le comunicazioni tra i detenuti mafiosi e le loro organizzazioni all’esterno per impartire direttive o per ricevere dosi di droga.
La commissione guidata da Lari si sofferma sui ruoli delle tre principali mafie italiane e, come fa anche la Direzione nazionale antimafia, nota che:
la 'ndrangheta non sembra coinvolta “perché non vi è stata alcuna sommossa in istituti penitenziari calabresi” e anche “perché non è stato registrato alcun coinvolgimento di detenuti appartenenti a tale organizzazione mafiosa”. Anzi, l’episodio di Melfi dimostra un loro certo disinteresse;
cosa nostra, che ha una struttura unitaria e verticistica e considera la Sicilia suo territorio di appartenenza, pare essersi “completamente disinteressata a tutte le rivolte in esame”.
Inoltre gli approfondimenti degli investigatori della polizia penitenziaria sui telefoni cellulari sequestrati nel corso delle perquisizioni non hanno dato riscontri di contatti telefonici con appartenenti alla criminalità organizzata e, a distanza di due anni, “sono stati instaurati procedimenti penali quasi esclusivamente a carico di detenuti comuni”, mentre non ci sono notizie di procedimenti delle procure distrettuali antimafia su impulso della Dnaa.
La commissione del Dap parla di "strategia comune" tra familiari e antagonisti "per ottenere benefici penitenziari e/o provvedimenti di clemenza”, ipotesi che però “per quanto ritenuta da questa Commissione plausibile, non ha trovato riscontro in esiti di inchieste giudiziarie”
E allora, chi ha soffiato sul fuoco della rivolta? Sembra più plausibile è che, ad alimentare le rivolte dall’esterno, sia stato il legame sorto tra familiari e gruppi anarchici fuori dalle carceri. Ad esempio, in merito alle proteste avvenute a San Vittore, carcere milanese, “le attività di indagine svolte dal Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria nei giorni dei disordini hanno, anche, evidenziato un verosimile ruolo di coordinamento assunto dai movimenti antagonisti legati ai familiari dei detenuti radunatisi davanti alla struttura poco dopo l'inizio dei disordini, così come avvenuto in altri istituti”.
I parenti, preoccupati per le condizioni dei loro cari detenuti, si sono organizzati anche usando i social network: “Hanno avviato e alimentato campagne mediatiche contro le istituzioni accusate di abbandonare i detenuti al loro destino e che sovente hanno manifestato fuori dagli istituti penitenziari in concomitanza con le rivolte, creando, talvolta, problemi di ordine pubblico”. Ma questo non basta a ritenerli i registi delle rivolte: “Non sono stati acquisiti elementi probatori utili”, si legge. “Per quanto riguarda l'eventualità che possano esservi stati accordi, possono citarsi le rivolte di Bologna, Roma Rebibbia, Napoli Poggioreale, Milano San Vittore, Palermo Pagliarelli e Siracusa: in questi casi, infatti, l'attività ispettiva ha fatto emergere come probabile l’ipotesi che detenuti, loro familiari e gruppi antagonisti abbiano concordato il momento in cui dare l'avvio alle rispettive manifestazioni di protesta dentro e fuori le strutture penitenziarie”.
In questo caso, la commissione del Dap parla sì di “una strategia comune volta a utilizzare le forme violente di protesta come strumento di pressione nei confronti delle istituzioni per ottenere benefici penitenziari e/o provvedimenti di clemenza”, un’ipotesi che però “per quanto ritenuta da questa Commissione plausibile, non ha trovato riscontro in esiti di inchieste giudiziarie”.
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