Foto: Flickr, naql (CC BY 2.0)
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Quando aprimmo le ali, senza imparare a volare

La Convenzione firmata a Palermo ha in parte tradito le attese: l'impegno nella lotta alle mafie perde di significato quando si accettano leggi e politiche che calpestano i diritti fondamentali delle persone

Luigi Ciotti

Luigi CiottiDirettore editoriale lavialibera

23 dicembre 2022

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Nell’aprile del 1992, un mese prima dell’attentato che gli costò la vita, Giovanni Falcone aveva partecipato a Vienna alla prima sessione della Commissione delle Nazioni unite sulla prevenzione del crimine e la giustizia penale. In quella sede aveva invocato con forza un impegno globale nella lotta alle mafie, ossia una strategia per affrontare le reti criminali attraverso i confini degli stati. L’idea di una conferenza di alto livello per porre le fondamenta giuridiche della cooperazione nel contrasto alla criminalità organizzata trovò il suo coronamento qualche anno dopo proprio a Palermo, la città di Falcone, Paolo Borsellino e di tante altre vittime. Qui, nel dicembre del 2000, fu firmata la Convenzione delle Nazioni unite contro la criminalità transnazionale, che entrerà in vigore tre anni dopo. Un passo avanti epocale, perché si tratta del primo strumento di diritto internazionale in materia.

Nel documento manca la giusta considerazione verso la società civile, i cittadini, le associazioni, i movimenti, le chiese, quanti vogliono portare il loro contributo

Entriamo per un istante dentro quegli articoli. Articolo 12: indispensabili sono le procedure di sequestro e di confisca. Articoli 24 e 25: il sistema di protezione dei testimoni e delle vittime. Articolo 31: i programmi di prevenzione. Possiamo dire di vederli realizzati oggi? No, perché pochi fra i firmatari della Convenzione l'hanno tradotta nella concretezza, adeguando i propri sistemi giuridici nazionali. Inoltre, nel documento il ruolo degli attori non istituzionali nel contrasto alle mafie è trattato in modo marginale. Manca la giusta considerazione verso la società civile, i cittadini, le associazioni, i movimenti, le chiese, quanti vogliono portare il loro contributo. Una lacuna grave. Solo l’articolo 32 affronta di striscio il tema, quando dice che gli stati sono chiamati a "cooperare con le competenti organizzazioni internazionali e regionali e con le organizzazioni non governative".

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Una voce dal basso

Palermo, 10 dicembre 2000. Luigi Ciotti parla con Livia Pomodoro, presidente del Tribunale dei minori di Milano. Dietro, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando e padre Turturro (Ansa)
Palermo, 10 dicembre 2000. Luigi Ciotti parla con Livia Pomodoro, presidente del Tribunale dei minori di Milano. Dietro, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando e padre Turturro (Ansa)

Come sapete, nel 2000 non era prevista la nostra presenza qui a Palermo. E quando abbiamo saputo che si preparava questo grande momento, che abbiamo ritenuto importante e di valore, ci siamo chiesti: come mai? Per quale motivo i cittadini, le associazioni, i movimenti, bellissime realtà fortemente impegnate dalle quali abbiamo preso esempio, qui a Palermo e altrove, sono state escluse? E allora abbiamo fatto una battaglia, perché a volte bisogna salire sulle barricate per chiedere conto a chi ha il potere di certe sue disattenzioni. Siamo venuti proprio qui, ai cantieri culturali della Zisa. Abbiamo trovato un’amministrazione che ci ha accolto e abbiamo organizzato la nostra presenza a quell’appuntamento così cruciale. Con umiltà e rispetto, abbiamo cercato di far emergere una voce in più, dal basso, perché stanchi di sentire le solite voci dall’alto che spesso ignorano la vita reale, la fatica e la sofferenza delle persone. Qualche giornale lo definì il controvertice di Libera, ma non voleva essere un appuntamento alternativo, contro. Si trattava anzi di portare un contributo per, nella medesima direzione, partendo da un’esperienza molto concreta dei problemi. E così è stato.

Essere qui di nuovo dopo ventidue anni è per me una forte emozione. Ricordo i momenti di quel dibattito, l’impegno che ha comportato. Anche perché maturato al termine di un percorso non privo di ostacoli. Dopo la conferenza di Napoli del 1994 erano tutti entusiasti, tutti contenti: l’accordo internazionale sembrava cosa fatta. Si parlò di una svolta, di "un brillante avvio per un rapido processo di cooperazione internazionale". Ma dietro l’apparente successo si apriva invece una fase di incertezza, segnata dal pesante conflitto tra due fazioni all’interno delle stesse Nazioni unite: i paesi più ricchi e potenti contro quelli più poveri e fragili. Tuttavia non abbiamo smesso di crederci, di sperare che alcuni passi avanti potessero essere fatti. Finché, nel dicembre del ‘97 e nell’aprile del ‘98, l’Assemblea generale dell’Onu decise di incaricare un gruppo di esperti della scrittura di una bozza di Convenzione internazionale che sfocerà poi nel testo approvato a Palermo.

Nell’ottobre del 2020, a venti anni esatti da quella prima Convenzione, è stata siglata dalla Conferenza delle parti la Risoluzione Falcone, che potenzia il contrasto alla dimensione economica della criminalità, presentata proprio dall’Italia per dare dignità al sacrificio del giudice e di tanti altri che hanno perso la vita per tutelare la libertà e la democrazia del nostro Paese. Questo testo viene approvato "per il lavoro e il sacrificio che hanno aperto la strada all’adozione della Convenzione".

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L’era dei muri non è finita

C’è però una zona grigia impressionante, e mi permetto di dire vergognosa, di cui tenere conto. All’epoca furono approvati due protocolli aggiuntivi alla Convenzione che ponevano un’attenzione specifica alla repressione del traffico di persone migranti, di donne e di bambini, del traffico di organi e di quello delle armi. Già allora questi documenti non avevano trovato una piena adesione, e oggi vediamo cosa sta succedendo sulla pelle di quelle persone, e nella circolazione degli armamenti.

Quando il muro di Berlino fu abbattuto, il mondo tirò un bel sospiro di sollievo. L’ultimo muro di quel tipo sopravvisse ancora alcuni anni a Gorizia, in Italia, ma poi a sua volta cadde. Sembrava che l’epoca delle recinzioni e delle contrapposizioni fosse finita. Ma quanti muri esistono oggi e quante migliaia di chilometri sono lunghe quelle barriere di cemento e filo spinato? Sono settanta. E altre sette sono in corso di costruzione, già finanziate. Esistono quarantamila chilometri di muri oggi nel mondo, esattamente quanto è lunga la circonferenza della Terra. Ma vi pare possibile? Da una parte vediamo i progressi, i passi avanti da riconoscere e consolidare, il grande lavoro fatto per il contrasto alla criminalità, alle mafie e a tutto quello che ruota loro intorno. Dall’altra, dobbiamo anche riconoscere che per molti altri versi abbiamo tradito la Dichiarazione universale dei diritti umani e la nostra Costituzione. Perché quelle parole scritte così solennemente sulla carta, non sono state tradotte nella vita, nella concretezza delle scelte e dei fatti. Quanta sofferenza ci porta sapere che oltre ai muri terrestri abbiamo dei muri marittimi, delle operazioni che con la scusa di controllare i flussi migratori servono in realtà a respingere indiscriminatamente le persone disperate che fuggono da miseria e guerre. Abbiamo navi, aerei, droni usati per pattugliare il Mediterraneo. Sono anche questi strumenti che fanno muro. In modo diverso, ma fanno muro. Il nostro Mediterraneo, che rappresenta l’uno per cento degli oceani, è diventato un cimitero per migliaia di migranti e rifugiati. 

Allora, da una parte, parliamo di combattere le mafie rafforzando e implementando le Convenzioni. Dall’altra, accettiamo leggi e politiche che non si fanno scrupolo di calpestare patti giuridici fondamentali, a partire dalla nostra Costituzione. Serve allora una riflessione a monte, non di natura tecnica ma puramente etica. Quando il valore del denaro è superiore al valore della vita, si è in stato di conflitto. Un conflitto non dichiarato e perciò ancora più pericoloso, subdolo e ipocrita. Un conflitto nel quale le mafie si trovano perfettamente a proprio agio, partecipando per i propri interessi alla strage di umanità che affligge tante parti del mondo.

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Un problema di tutti

In questi anni con Libera abbiamo cercato di dimostrare che c’è un ruolo della società in tutto questo. Non parliamo di società civile, perché tutti dicono di essere civili, ma non basta. Una società responsabile, consapevole. Le leggi e le convenzioni non bastano se non c’è una rivoluzione delle nostre coscienze, se non si crea una partecipazione delle persone, se non inondiamo i nostri territori di fiducia e di speranza, cominciando dalle persone più deboli. Libera da oltre 15 anni continua un lavoro di tessitura della rete internazionale di associazioni attive nel contrasto alle mafie. A breve saremo al Parlamento europeo a presentare un documento di analisi e proposta. Perché ventidue anni fa ci eravamo lasciati promettendoci di costruire questa alleanza fra cittadini. E l’abbiamo fatta. Con tutti i nostri limiti, a volte anche sbagliando, ma l’abbiamo fatta.

Noi di Libera ci eravamo lasciati promettendoci di costruire un’alleanza fra cittadini e così è stato. Con tutti i nostri limiti, a volte anche sbagliando, ma ce l’abbiamo fatta

Lasciate che vi citi un messaggio che Papa Francesco ci ha mandato in occasione di un ampliamento di questa rete nella sua Argentina. Lui chiarisce una prospettiva che non è riconosciuta da tutti, anche all’interno della Chiesa. Dice che "le mafie sono un problema mondiale che richiede uno sforzo istituzionale congiunto, internazionale. Non sono solo un fenomeno italiano". Un problema associato al "funzionamento deficitario delle istituzioni, di tutte le istituzioni. Questo è uno dei volti della corruzione che non è solo tangenti, ma appunto inefficienza, inefficacia, incapacità". È una denuncia forte e chiara. 

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Vietato desistere

Insomma c’è ancora molta strada da fare. Il capo servizio del Giornale di Sicilia di tanti anni fa, Daniele Billitteri, scriveva: "Questa conferenza mostra che un gran numero di paesi del mondo vuole intervenire prima, rendendo la vita difficile alla mafia, per evitare che diventi come ha fatto ogni volta da cucciolo una belva feroce. Questo forse sarà possibile, a patto che non si dimentichi un principio: l’ultima mafia è sempre la penultima, anche perché il codice genetico della mafia affida alla sua creatura un imperativo primario: quello di sopravvivere. Quelle mafie sono in fuga, stanno cambiando. Ce n’è un’altra infatti che cova, ha sempre covato. Nei cambiamenti storici che sono avvenuti, ci sono sempre delle ceneri che ardono sotto. (…) Allora sarà bene cominciare a porsi una domanda: come sarà la mafia che viene?". Noi lo stiamo toccando con mano oggi: ci sono imprenditori che vanno spontaneamente a cercare i servizi della criminalità organizzata. Le mafie e i grandi boss hanno abbandonato le forme organizzative arcaiche e agiscono come moderni manager. Dobbiamo leggere tutto questo, comprenderlo, per reagire. Non scoraggiamoci, ne vale la pena! Ventidue anni fa, in questo luogo, abbiamo detto: costruiamo una rete. Ora serve uno scatto in più, da parte di tutti.

(trascrizione dell’intervento tenuto a Palermo il 28 ottobre 2022, in occasione del convegno "Cross, La società civile nella lotta alle mafie globali dalla Convenzione di Palermo ad oggi")

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