A bordo delle barche confiscate, i minori cercano nuove rotte

A luglio, durante un campo estivo di Libera a Napoli, alcuni giovani del progetto Amunì hanno potuto fare alcune gite sulle barche a vela sottratte a scafisti, ristrutturate e gestite da altri giovani che come loro seguono percorsi di riparazione dopo aver commesso un reato. Questi beni confiscati rappresentano un'opportunità per molte persone

Andrea Giambartolomei

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

25 luglio 2023

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Solcando le onde, in mare aperto, le barche un tempo usate per portare i migranti in Europa trovano un nuovo scopo: aprire il mondo ai giovani che hanno commesso reati, insegnando loro a stare insieme e a rispettare alcune semplici regole di convivenza. Lo hanno sperimentato 12 ragazzi del progetto Amunì, il programma di Libera destinato ai giovani tra i 16 e i 22 anni sottoposti a un procedimento penale. A Napoli, dal 7 al 13 luglio, durante un campo di impegno e formazione intitolato "Navigare e Divenire. Onda Libera. La rotta di Partenope", i ragazzi – insieme ai volontari di Libera e ad alcuni operatori dei centri per la giustizia minorile (il Centro diurno polifunzionale di Nisida, il Centro di prima accoglienza di Napoli e gli Uffici per i servizi sociali per i minorenni di Brindisi e Genova) che li hanno accompagnati – hanno passato quattro giornate a bordo della Elizabeth, una barca a vela confiscata ad alcuni scafisti, recuperata e gestita dall’associazione “Scugnizzi a vela” di Napoli, dove i giovani usciti dal carcere di Nisida e delle comunità per minori imparano i mestieri del mare. “È la prima volta che i giovani di Amunì partecipano a un progetto a bordo di una barca a vela confiscata alla criminalità – spiega Barbara Pucello, coordinatrice del progetto di Libera –. Abbiamo chiesto a ‘Scugnizzi a vela’ di collaborare e hanno messo a disposizione le imbarcazioni e i volontari dell’equipaggio”.

Amunì è un'esortazione a cambiare. Leggi la storia del progetto di Libera rivolto ai ragazzi impegnati in un percorso di riparazione

Stefano Lanfranco, ideatore del progetto "Scugnizzi a vela", insieme a un partecipante del campo scuola di Libera
Stefano Lanfranco, ideatore del progetto "Scugnizzi a vela", insieme a un partecipante del campo scuola di Libera

L’associazione napoletana è nata dalla volontà di Stefano Lanfranco e altri compagni di avventure per insegnare ad alcuni giovani finiti nei circuiti della giustizia minorile un mestiere dell’ambito navale. “Gli insegniamo anche l’abc dell’educazione civica, a essere civili e rispettosi – dice Lanfranco –. Restano con noi almeno per otto mesi e devono imparare a essere maturi se dopo vogliono trovare un lavoro”. Negli spazi concessi dalla Marina militare, giovani provenienti dai Quartieri spagnoli, da Forcella e altri contesti imparano la manutenzione delle barche e studiano per prendere la patente nautica. “Riusciamo anche a far ottenere dei contratti”, afferma con un pizzico d’orgoglio Lanfranco.

Durante il campo scuola, la mattina i partecipanti uscivano in mare sulla Elizabeth (utilizzata anche per un episodio della serie tv Mare fuori), facevano delle gite verso Ischia o Gaiola, oppure degli incontri, come quello (particolarmente emozionante per i giovani di Amunì) con Antonio Cesarano, padre di Genny Cesarano, 17enne vittima innocente della camorra. La sera, poi, rientravano al centro polifunzionale di Nisida. “Col capitano hanno potuto apprendere i primissimi rudimenti della navigazione, imparato a tenere un po’ il timone e a sciogliere le vele”, continua la responsabile del progetto di Libera. “Se vieni a bordo devi conoscere le regole e rispettarle – precisa Lanfranco -. Il mare e le sue regole fanno bene”.

Per moltissimi ragazzi è stata la prima volta lontano dalla loro città e la prima volta in mare aperto. “Il viaggio è una delle direttrici della nostra attività, permette di incontrare realtà e persone nuove, di far comprendere che l’umanità è varia”, aggiunge Pucello. Anche alcuni “Scugnizzi a vela” hanno potuto conoscere il mondo al di là del loro rione. “Cinque anni fa il Centro di giustizia minorile ci ha chiesto di recuperare un’imbarcazione a Otranto”, ricorda Lanfranco. Era la Bliss, una barca di dieci metri che aveva portato a Santa Maria di Leuca 35 migranti. Così lui, una dozzina di ragazzi e alcuni volontari sono partiti verso la Puglia per ripulire ed eseguire una manutenzione del natante. Poi, con una navigazione di 450 miglia nautiche in cinque giorni, lui e alcuni giovani hanno portato la Bliss a Napoli e ora viene utilizzata anche per attività di velaterapia. “Per molti ragazzi uscire dal quartiere è già un’impresa. Per questo andare in un’altra regione e navigare è stata una grande esperienza”, conclude.

Per i minori il carcere non è "Mare fuori"

L’esperienza di Reggio Calabria

Alcuni giovani a bordo della Evai, durante una navigazione organizzata dalla Lega navale italiana di Reggio Calabria
Alcuni giovani a bordo della Evai, durante una navigazione organizzata dalla Lega navale italiana di Reggio Calabria
"Questi ragazzi spesso non conoscono molto se non il loro quartiere, sono emarginati. Abbiamo potuto mostrare loro che esiste altro, che esiste la bellezza"Sandro Dattilo - Responsabile Lega navale italiana a Reggio Calabria

“Il mare è una cura”. Ne è convinto Sandro Dattilo, presidente della sezione di Reggio Calabria della Lega navale italiana, mentre racconta il lunghissimo viaggio, quasi un mese tra andata e ritorno, compiuto nel 2019 insieme a tre giovani coinvolti in processi penali. Dalla punta dello Stivale hanno navigato verso Trieste a bordo della Evai, altra barca a vela che trasportava migranti, per partecipare alla Barcolana, una storica regata internazionale: “L'imbarcazione era stata sequestrata nel 2015. Avevamo chiesto fosse assegnata a noi ma non volevano darcela. Un giorno abbiamo saputo che stava per essere demolita, al costo di 25mila euro per lo Stato, e ci siamo mossi per recuperarla, di tasca nostra. La barca si chiamava Eva e poiché per scaramanzia non si cambiano i nomi delle imbarcazioni, abbiamo aggiunto soltanto una vocale". È diventata Evai e adesso suona come un’incitazione, un invito a partire, quello accolto dai tre giovani partecipanti, uno ai domiciliari e due in messa alla prova, che dopo un breve periodo di formazione hanno navigato insieme a Dattilo e a tre volontari per centinaia di miglia. “Quella traversata ci è costata molta fatica, molto tempo e molto denaro, ma ci ha dato una grande soddisfazione – ricorda Dattilo –. Questi ragazzi spesso non conoscono molto se non il loro quartiere, sono emarginati. Abbiamo potuto mostrare loro che esiste altro, che esiste la bellezza”.

L’imbarcazione della Lega navale di Reggio Calabria viene utilizzata anche in altri ambiti. “In inverno abbiamo supportato l’istituto nautico di Palmi per insegnare la marineria, perché talvolta i programmi didattici sono un po’ teorici. Abbiamo fatto dei corsi professionali per giovani disoccupati, così che possano diventare ormeggiatori esperti nell’accoglienza dei viaggiatori”. Non solo. “Abbiamo fatto alcune uscite in mare con malati di leucemia o di diabete. A differenza dei minori con problemi di giustizia, queste persone conoscono già il mondo e questa esperienza per loro è una terapia distensiva, si distraggono dai loro problemi quotidiani. Quello che si vede negli occhi delle persone che scendono dalla barca ci ripaga. Sono cambiati, più sereni e tranquilli. I giovanissimi assorbono la buona pratica marinaresca, il rispetto del mare e degli altri, l’importanza della sicurezza”.

Le istituzioni ci credono

I ragazzi del progetto organizzato dalla sede di Reggio Calabria insieme al Centro di giustizia minorile a bordo della barca a vela confiscata ai trafficanti di esseri umani
I ragazzi del progetto organizzato dalla sede di Reggio Calabria insieme al Centro di giustizia minorile a bordo della barca a vela confiscata ai trafficanti di esseri umani

“L’obiettivo primario del dipartimento è individuare delle attività capaci di aprire la mente dei giovani, far emergere talenti e trasmettere dei valori"Gemma Tuccillo - Ex direttrice del dipartimento di Giustizia minorile

“In mare i ragazzi vivono una sensazione di libertà e autonomia che altre attività non forniscono”, sintetizza Gemma Tuccillo, magistrato (ora in pensione) che dal marzo 2017 al gennaio 2023 ha guidato il dipartimento per la Giustizia minorile. Negli ultimi anni il ministero della Giustizia ha sostenuto molti progetti: nel marzo 2022 sono stati firmati due protocolli d’intesa, uno con la Lega navale italiana (rinnovo di un atto sottoscritto nel 2016) e l’altro con la Marina militare, per realizzare percorsi formativi capaci di favorire la riabilitazione e l’integrazione dei minori entrati nel circuito penale con corsi legati ai mestieri del mare.

“L’obiettivo primario del dipartimento è individuare delle attività capaci di aprire la mente dei giovani, far emergere talenti e trasmettere dei valori – dichiara l’ex magistrato –. Da napoletana, ho sempre trovato che le attività nautiche fossero adatte perché il mare va rispettato, impone la solidarietà e il rispetto delle regole, che non vengono calate dall’alto, ma si apprendono nella pratica. Ci sono tutti gli elementi per costruire un buon programma e arrivare a un recupero”.

Anche le istituzioni locali possono contribuire. A marzo il Comune di Bari, tramite l’assessorato al Welfare guidato da Francesca Bottalico, ha promosso il progetto “Mare sociale” attraverso il quale avvicinare i neet (giovani fuori da percorsi educativi e di lavoro) alla formazione e alle professioni legate al mare (assistente di banchina, ormeggiatore e aiutante di bordo). Lo faranno a bordo della Kalimché, che in passato era stata utilizzata per portare dei migranti da Bodrum (Turchia) verso le coste pugliesi. La barca, assegnata dal ministero della Giustizia al Comune alcuni anni fa, è stata rigenerata da otto ragazzi del circuito penale insieme ai tecnici del cantiere navale Darsena Mar di Levante. Lo scorso anno è stata utilizzata per una sessantina di veleggiate sociali. “Ad ogni uscita, oltre allo skipper, ci sono un mozzo e un navigatore che provengono dai percorsi di messa alla prova e dal circuito minorile – illustra l’assessora al Welfare –. Tre giovani passati di qui sono stati assunti dalla Darsena Mar di Levante, che ha dato vita all’associazione ‘A vele spiegate’. Oltre alle veleggiate, abbiamo deciso di aprire la barca alla città facendone un luogo di cultura e di educazione”. In che modo? “La barca è diventata la Bari Social Boat e all’occorrenza una biblioteca itinerante dedicata al tema del viaggio e dell’accoglienza nonché un luogo di incontri culturali”.

A scuola nelle ville dei boss

Uno strumento in più per le scuole

In alcuni casi le barche confiscate alla criminalità possono diventare utili per le scuole. Nel 2015 la Guardia di finanza ha ceduto all’istituto comprensivo Amerigo Vespucci di Vibo Valentia uno scafo di 12 metri, lo “Sheri”, arrivato al largo delle coste calabresi nell'agosto 2010 con oltre 50 migranti. Da allora viene utilizzato per le attività didattiche di allieve e allievi delle Medie. “A settembre torneranno a scuola e faranno alcune escursioni per studiare dal vivo la natura, il territorio e il mare, facendo delle misurazioni, ovviamente attività adatte alle secondarie di primo grado”, spiega il dirigente scolastico Giuseppe Sangeniti.

A Salerno, dal 2016 l’istituto navale Giovanni XXIII possiede una barca a vela di gran valore, la “Gatsby” realizzata nel 1978 in un cantiere navale di Anzio. Apparteneva a un faccendiere romano, Augusto Murri, coinvolto nell’inchiesta sulla maxitruffa alla Fastweb Telecom Italia Sparkle. “È una barca completamente in legno, una piccola Ferrari del mare usata per fare le regate – racconta Emiddio Ventre, professore di esercitazioni nautiche –. Adesso la utilizziamo per fare delle uscite tre volte a settimana con gli studenti, ragazzi di 14 e 15 anni, futuri ufficiali di marina mercantile e di diporto, che imparano le prima nozioni”. Non solo. “Facciamo anche attività di velaterapia, l’ultima volta a giugno con alcuni giovani disabili”. L’istituto deve però affrontare un problema non da poco: “Dobbiamo fare delle riparazioni importanti e i costi sono alti, quasi 20mila euro, per questo abbiamo attivato una raccolta fondi. Qualcuno ha detto di lasciare andare in disarmo la barca e chiedere l’assegnazione di un altro mezzo confiscato, ma mantenerla è una battaglia simbolica”.

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