La cantante sudafricana Miriam Makeba, nata a Johannesburg, è stata la voce della lotta all'apartheid. Il suo ultimo concerto prima di morire fu a Castelvolturno, in ricordo di sei migranti africani uccisi dalla camorra (Wikipedia)
La cantante sudafricana Miriam Makeba, nata a Johannesburg, è stata la voce della lotta all'apartheid. Il suo ultimo concerto prima di morire fu a Castelvolturno, in ricordo di sei migranti africani uccisi dalla camorra (Wikipedia)

Quindici anni fa l'ultimo concerto di Miriam Makeba per i migranti uccisi dalla camorra

Il 9 novembre 2008, a Castel Volturno, l'artista africana simbolo della lotta all'apartheid salì sul palco per il suo ultimo concerto dedicato ai sei giovani uccisi due mesi prima nella strage di San Gennaro

Toni Mira

Toni MiraGiornalista e componente del comitato scientifico de lavialibera

10 novembre 2023

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Faceva molto freddo la sera del 9 novembre 2008, ma Miriam Makeba – la più grande cantante africana, simbolo della lotta all’apartheid – volle salire lo stesso sul palco allestito a Castel Volturno. Malferma di salute, 76 anni, voleva cantare a tutti i costi per le migliaia di immigrati della “piccola Africa” casertana.  L’ultimo suo concerto fu per loro. Sfruttati, fino alla morte. Come i sei giovani uccisi il 18 settembre dello stesso anno dal gruppo camorrista stragista guidato da Giuseppe Setola, responsabile quell’anno di 18 omicidi in appena sei mesi. 

A 10 anni dalla strage di Castel Volturno

La strage di San Gennaro, per la ricorrenza del santo tanto venerato in Campania. Un’azione criminale con finalità di discriminazione e odio razziale, ma anche terroristica per incutere terrore nella comunità, in particolare tra gli immigrati. Che invece il giorno dopo reagirono, scesero in piazza, bloccarono il traffico. Una protesta contro la camorra e lo sfruttamento, con un coraggio che nessun italiano prima aveva dimostrato. 

A CastelVolturno fu un’azione criminale con finalità di discriminazione e odio razziale, ma anche terroristica per incutere terrore nella comunità, in particolare tra gli immigrati

Giorni terribili di paura e sconcerto

Castel Volturno, settembre 2008. Un momento dei funerali dei sei giovani africani uccisi in un agguato di camorra il 18 settembre 2008 (Cesare Abbate/Ansa)
Castel Volturno, settembre 2008. Un momento dei funerali dei sei giovani africani uccisi in un agguato di camorra il 18 settembre 2008 (Cesare Abbate/Ansa)

Il mio ricordo di quel 2008 è di giorni terribili, di mesi terribili. Paura, sconcerto, il timore che crollasse tutto quello che si era costruito, che si tornasse indietro. Anche noi giornalisti faticavamo a capire. Ricordo incontri la sera, quasi carbonari con tanti protagonisti della resistenza alla camorra. Ricordo l’impegno giorno e notte degli investigatori. Ricordo i posti di blocco della Folgore. Come in Iraq e in Afghanistan. Poi la camorra sbagliò, così come aveva sbagliato 14 anni prima uccidendo don Peppe Diana. Allora provocò la reazione di un’antimafia civile, sociale, fatta di associazioni, scout, cooperative, beni confiscati. Una resistenza silenziosa ma vincente. 

Limbo Castel Volturno

Nel 2008 la camorra uccise i sei ragazzi immigrati e furono proprio loro a reagire, rumorosamente, con coraggio, come nessuno aveva mai fatto prima. Tutta la stampa, anche quella più distratta, fu costretta a scoprire la “piccola Africa” di Castel Volturno, e ascoltare la voce di chi da anni era sfruttato e costretto a subire in silenzio. A Castel Volturno ero venuto la prima volta nel 1990, in occasione di una prima strage di immigrati, quattro ragazzi uccisi dal clan La Torre. Anche allora violenza e razzismo, perché la camorra è razzista e cavalca il razzismo, intercettando a suo modo le tensioni sul territorio. 

Tutta la stampa, anche quella più distratta, fu costretta a scoprire la “piccola Africa” di Castel Volturno, e ascoltare la voce di chi da anni era sfruttato e costretto a subire in silenzio

Era il 24 aprile, il giorno prima della festa della Liberazione. Ma qui, malgrado il clamore di quella prima strage, la liberazione dalla schiavitù dello sfruttamento non si è mai completata. Anche dopo la strage del 2008. Miriam Makeba raccolse la voce di dolore e rabbia degli immigrati. La fece diventare la sua voce, donata da anni alla causa dei discriminati, donata fino all’ultimo battito del suo grande cuore. Quella strage, la morte di Miriam portarono Castel Volturno all’attenzione del Paese. Ma per poco. 

Il degrado non è mai andato via

I problemi restano, il degrado resta, lo sfruttamento resta. Malgrado da anni il territorio abbia anche un commissario straordinario (il prefetto di Caserta) per l’emergenza immigrati. Malgrado tanti fondi stanziati.  Così tocca allora a realtà come il Centro Fernandes della diocesi di Capua raccogliere quelle voci, ascoltare drammi, accogliere “fantasmi”. Oggi come allora. Lavorando in silenzio. Troppo silenzio. Toccherebbe invece a noi giornalisti ascoltare quelle voci, venirle a incontrare, raccontarle.

Quei braccianti sfruttati e uccisi nel silenzio

Ancor più oggi che le scelte dell’attuale governo sono solo securitarie. Immigrati solo come problema, clandestini se non addirittura criminali. Da deportare in Albania, da chiudere dietro muri e fili spinati. Non persone come quelle che Miriam Makeba volle incontrare 15 anni fa proprio qui al Fernandes prima del suo ultimo concerto. E che ancora oggi vogliono essere incontrate. 

Oggi le scelte dell’attuale governo sono solo securitarie. Immigrati solo come problema, clandestini se non addirittura criminali. Da deportare in Albania, da chiudere dietro muri e fili spinati

Miriam Makeba decise di essere al fianco dei suoi “fratelli” di Castel Volturno, con la sua immensa voce. Lei che aveva dato voce, e che voce!, alla lotta in Sudafrica, la sua terra, e poi in tutto Mondo, dove si lottasse contro sfruttamento e discriminazione. Una voce che consumò fino all’ultimo su quel palco e che si spense poche ore dopo. Trenta anni in esilio imposto dal governo di Pretoria, nomade in giro per il mondo, portando musica e diritti, vincendo un Grammy nel 1966, incidendo pezzi che sono storia come Papa Pata, The click song e Malaika

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E quest’ultimo è proprio il titolo dell’evento che il 9 novembre l’ha voluta ricordare a Castel Volturno proprio al Centro Fernandes. Malaika significa “angelo” in Swahili una delle lingue africane più diffuse, ed è una delle più famose canzoni d’amore del continente. “Angelo, ti amo angelo mio, cosa posso fare, amore mio, non ho denaro vorrei sposarti, angelo mio, ma non ho denaro”. Così recita il testo che Miriam Makeba cantò anche la sera di 15 anni fa. Quello del 9 novembre è stato un incontro di arte, cultura e musica, per ricordare Miriam Makeba, e quei durissimi giorni, attraverso tante testimonianze. 

Camminare tutti insieme

Tra loro il vescovo di Cerreto Sannita, monsignor Giuseppe Mazzafaro, delegato regionale per Migrantes, i musicisti Tashia Rodrigues, considerata l’erede di Miriam Makeba, Nancy Nene Colarusso e Daniele Sepe, presente al concerto del 2008, il sindacalista della Flai-Cgil, Jean Bilongo che a Castel Volturno arrivò come bracciante, Mamadou, anche lui ex sfruttato a Castel Volturno, la cui storia è stata fonte d'ispirazione per il regista Matteo Garrone, col film Io CapitanoE poi ancora giornalisti che raccontarono quei giorni, amministratori locali, volontari da decenni accanto agli immigrati. Un coro di voci di chi non dimentica la grande cantante paladina dei diritti, che qui come in altri territori sono ancora calpestati.

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“Bisogna camminare insieme, diceva Miriam Makeba – ricorda Antonio Casale, responsabile del Centro – e Castel Volturno con le sue 51 etnie ne è esempio. Nell’incontro di Miriam al Fernandes i ragazzi africani piangevano, lei cantò senza accompagnamento, soprattutto ninna nanne per i bambini. Erano tanti quel giorno, oggi sono cresciuti, e sono ancora qui”. Molto forti e attualissime le parole del vescovo di Cerreto Sannita.

"Nell’incontro di Miriam al Fernandes i ragazzi africani piangevano, lei cantò senza accompagnamento, soprattutto ninna nanne per i bambini", ricordail responsabile del centro Antonio Casale

“Miriam Makeba cantava la sua passione, contro l'apartheid. Ha un posto nella storia perché ha fatto molto per gli altri. Come lei non possiamo accettare la logica dei muri, che non ci proteggono ma ci imprigionano. Il sogno del Signore è un mondo senza muri e noi ci crediamo. Nessuno si salva da solo, abbiamo bisogno di qualcuno da abbracciare”. Proprio come fece Miriam, “mama Afrika”, fino al suo ultimo respiro, quando sentendosi già male volle lo stesso cantare Pata pata, la sua più famosa e allegra canzone. Allegria, gioia, bellezza, per sconfiggere quei giorni duri, per sconfiggere la violenza e la disumanità. Allora come oggi. 

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