3 dicembre 2023
Il segnale è arrivato presto, forte e chiaro. Appena insediato, cogliendo la palla al balzo del rave party organizzato in provincia di Modena, il governo Meloni ha subito reso evidenti le sue intenzioni sulle politiche per le droghe, a partire dal primo decreto: è finita la tregua dei governi di compromesso o di unità nazionale, che hanno ibernato la questione per anni. La criminalizzazione delle autorganizzazioni giovanili in tema di feste e divertimento, che schiaccia i ragazzi sulla rappresentazione pervertita dello “sballo”, ampiamente ripresa e rilanciata dai media, è stata prodromica di una governance politica a trazione penale.
Decreto rave: i free party spiegati a chi vorrebbe eliminarli
A distanza di soli pochi mesi, gli eco-attivisti, come gli occupanti di edifici in disuso, sono stati oggetto dell’inasprimento delle pene e di azioni repressive di polizia. Nel mirino ora sono i minori stranieri non accompagnati, che finiranno nei centri di accoglienza per adulti. “Legge e ordine” sembrano essere le sole risposte possibili alle espressioni del dissenso giovanile, che meriterebbero invece di essere anche lette come impegno sociale e ambientale, come risorsa potenziale e in atto della maturazione di una coscienza civile che oggi rischia di essere tragicamente assente.
E i giovani consumatori di sostanze psico-attive? È bastato un episodio di cronaca, il primo in grado di offrire un assist nei confronti dell’opinione pubblica, perché venisse proposto un incrudimento in senso repressivo della legge 309, il Testo unico sulla droga, rendendo pubblico il provvedimento che si stava già preparando dietro le quinte del Dipartimento per le politiche antidroga, guidato dall’abile regia del segretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano. In primo luogo, è stata proposta la modifica del comma 5 dell’art 73 della legge sulla droga, che riguarda “i fatti di lieve entità” riferiti al piccolo spaccio al minuto. Le pene vigenti sono già sovradimensionate (dai due ai cinque anni), come per tutti i reati in materia di droga tra le più alte in Europa, ma finora la “scappatoia” del comma 5 ha consentito al giudice di prescrivere le pene alternative alla detenzione, imponendo percorsi di cura anziché il carcere. Con la modifica, e quindi impedendo l’affidamento in prova ai servizi sociali, diventerebbe pressoché obbligato il percorso del carcere, già sperimentato in modo fallimentare con la legge Fini-Giovanardi. E, a seguire, sempre che vada tutto liscio durante la detenzione, il passaggio agli arresti domiciliari in comunità terapeutica.
Tossicodipendenza trattata come una patologia, ma non basta una pillola
Ora, se il vincolo penale può risultare spesso utile per “motivare” le persone al trattamento, le uniche soluzioni non possono però essere il carcere o, in alternativa, l’obbligatorietà della comunità terapeutica. Così facendo si trasformano le comunità in istituzioni chiuse, piccoli manicomi, e si preclude ogni possibilità di individualizzazione del trattamento, che invece è considerata l’indicazione prioritaria per la definizione di un percorso di cura. Inoltre, su un piano più strettamente giuridico, la modifica andrebbe in deroga al principio cardine del pensiero penale che si fonda sulla proporzionalità delle pene.
Criminalizzazione e patologizzazione dei comportamenti giovanili invece sembrano la scelta binaria che il governo ha scelto di percorrere.
In attesa della controriforma si è assistito a un giro di vite sui cannabis shop, che vendono cannabis legale con un massimo di 0,5% di principio attivo (Thc), che si sono rivelati di inattesa utilità durante la pandemia. In quella fase, i prodotti legali, più per effetto placebo che altro, hanno contribuito a gestire molti stati di malessere. Ma da due mesi non è più acquistabile se non in farmacia, con ricetta medica non ripetibile, il cannabidiolo (Cbd), altro principio attivo della cannabis e ansiolitico naturale, funzionale anche al contenimento dell’aggressività.
In questo quadro, risulta altrettanto significativo ciò che l'attuale governo non ha fatto. Ad esempio, ha fermato, azzerandolo di fatto, tutto il lavoro che la ministra Fabiana Dadone, nella scorsa legislatura, aveva coraggiosamente portato avanti organizzando una Conferenza nazionale sulle droghe che non si teneva da 12 anni, e riaccendendo i riflettori sull’argomento.
Durante quel percorso, era stato chiesto agli operatori, agli esperti e a tutti coloro che a vario titolo lavorano sulla problematica, di “svecchiare” la legge sulla droga che risale al lontano 1990 e, successivamente, di preparare il Piano di azione nazionale (Pand), di durata triennale, che l’Unione europea chiede a tutti gli Stati membri, in modo da armonizzare e coordinare una politica comune sul settore.
Invece tutti i lavori, sia i “suggerimenti” della Conferenza nazionale, sia il Piano di azione, sono stati accantonati i perché non ritenuti in linea con le attuali vedute governative. Gli esiti del considerevole lavoro compiuto, ultimato e apprezzato per i risultati della partecipazione e delle competenze di cui si è avvalso, improntati sui valori della cura e della prevenzione, compresa la famigerata riduzione del danno, sono stati cestinati senza un batter ciglio.
Droghe e riduzione del danno: piccola difesa non richiesta
È stata invece molto attiva la macchina della propaganda governativa sul tema droghe, che ha privilegiato i messaggi mediatici (quelli generalisti, che si dirigono al pubblico televisivo). Il primo spot “Dai un calcio alla droga”, ha subìto l’inatteso autogol di Roberto Mancini, commissario tecnico della Nazionale di calcio italiana che, dopo avere sbandierato i valori dello sport in contrapposizione a quelli attribuiti a chi usa sostanze illecite, ha testimoniato nei fatti il valore dei soldi dell’Arabia saudita.
Il secondo, recentissimo, "Butta via la droga, non la vita", ripete gli stereotipi dell’uso della cannabis come droga di accesso a tutte le altre, mentre ricerche e studi ribadiscono come ci sia una fidelizzazione alla cannabis (ad eccezione, di alcol e tabacco che costituiscono la “triade” delle sostanze in assoluto più consumate dai giovani), che riguarda 78-82 per cento dei consumatori. Evidenziando che hashish e marijuana non vengono tradite e sostituite con altre sostanze. Lo stesso Silvio Garattini, tra i più noti farmacologi italiani, in genere molto prudente sul tema, ha sentito il bisogno di fare le dovute precisazioni e di prendere le distanze da questo messaggio.
Adolescenti drogati di psicofarmaci e indifferenza
Lo spot generalista, con l’uso del medium televisivo, in realtà non si rivolge ai giovani, ma ad una popolazione di genitori che vuole essere illusoriamente rassicurata e che costituisce un bacino elettorale a cui attingere. Le vere campagne preventive più efficaci sono quelle che definiscono il target giovanile che si vuole incontrare, modellano il linguaggio sulle culture di riferimento, si caratterizzano come interattive e dialogiche, e possibilmente sono in grado di coinvolgere i ragazzi in iniziative in cui è loro permesso di assumere un ruolo da protagonisti.
Infine, il governo continua a ignorare il fatto che il gioco d’azzardo genera comportamenti drogastici. Il paradosso è lo strabismo con cui vengono interpretati i diversi fenomeni che inducono dipendenza e la radicale differenza di politiche al proposito: proibizionismo duro per l’uso di sostanze psicoattive, ad eccezione di quelle legali, liberalismo estremo per il gioco d’azzardo e i suoi concessionari. Le Giunte regionali di centro-destra si sono prodigate (Piemonte davanti a tutte) a disfare le leggi regionali più restrittive in vigore, consentendo l’ampliamento dei luoghi di gioco e la re-installazione di slot-machine anche là dove erano state faticosamente eliminate (bar, tabaccai, giornalai) evitando un eccesso di offerta di occasioni di gioco d’azzardo di prossimità. Come a dire, guerra dura alle droghe, tranne a quelle che non ci dispiacciono.
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