26 febbraio 2024
Aleksandr Lukashenko la vuole morta, la Lituania la ritiene una "minaccia per la sicurezza nazionale". Secondo il regime, in carica dal 1994, durante la "Rivoluzione delle ciabatte" tra il 2020 e il 2021 avrebbe tentato di farsi esplodere su ordine di Angela Merkel. Un'accusa fantasiosa che però ha avuto la conseguenza di iscriverla nella lista nera del Kgb, l'agenzia per la sicurezza dello Stato della repubblica Bielorussa. In realtà, l'unica colpa della giornalista e attivista per la pace Olga Karatch è quella di aiutare i disertori di guerra, insieme alla sua associazione Our House, attiva il 20 città del suo Paese – dove ieri si sono tenute le elezioni – e all'estero. In questi giorni si trova in Italia, dove ha ricevuto il prestigioso premio Alexander Langer (intitolato alla memoria dell'eurodeputato altoatesino, militante per l'ambiente e per la pace), che sostiene e valorizza gruppi o singole persone per il loro particolare impegno civile, culturale e politico a favore della conversione ecologica. "Noi pacifisti e femministe della Bielorussia – dice Karatch – abbiamo sempre guardato all’Europa come una possibile potenza di pace, un’alternativa ai blocchi militari della Russia e degli Stati Uniti." L'abbiamo intervistata alla tre giorni del Movimento non violento che si è svolto a Roma il 23-24-25 febbraio.
Olga, per quali motivi Lukashenko la considera una terrorista?
Tutto inizia nel 2020, durante le proteste in Bielorussia contro il regime di Lukashenko. Decidiamo di organizzare come difensori dei diritti umani delle hotline per aiutare le vittime: ascoltiamo le storie, cominciamo una raccolta fondi per pagare le spese legali. Ovviamente al governo la nostra iniziativa non è piaciuta e il 14 giugno del 2021 ha interrotto il nostro lavoro. Alcuni di noi sono stati arrestati, altri sono scappati all'estero. A settembre di quell'anno, il Kgb mi ha messo nella lista dei terroristi.
Cosa succede al confine tra Polonia e Bielorussia?
Con quale accusa?
Ovviamente non potevano dire che fossi una terrorista per aver creato una linea telefonica. Così hanno messo agli atti e detto che avevo tentato di farmi esplodere vicino a un punto di comunicazione russo dietro ordine di Angela Merkel, ex cancelliera federale della Germania. L'accusa era fantasiosa, ma da quel momento pende sulla mia testa la pena di morte, come per tutti quelli nella lista.
Come ha reagito?
Me l'aspettavo, perché la manipolazione e il controllo, insieme alla censura, sono fortissimi da parte del governo anche sui social. Ma le conseguenze possono essere terribili: un mio collaboratore, che aggiornava la mia pagina social e mi aiutava a scrivere i post, è stato arrestato con una pena di sei anni. Si è suicidato dietro le sbarre, non riuscendo a sopportare le torture. La pressione personale si è alzata, appesantendo anche la mia situazione emotiva, perché è morto per aver scritto dei post di Facebook.
In Bielorussia ci sono 186 professioni vietate alle donne. Di cosa ha paura il regime di Lukashenko?
Ci sono vari motivi. Prima di arrivare a 186 erano addirittura 252. Nel 2014, con la nostra organizzazione Our House abbiamo iniziato una campagna dal nome 252+1: quel numero in più era dovuto a un'affermazione di Lukashenko, secondo cui le donne non avrebbero mai potuto diventare presidente, perché "non indossano i pantaloni". È evidente che l'immagine è ancorata a retaggi del passato: molte delle professioni precluse sono infatti quelle ben pagate. Ma non solo, ce ne sono altre legate a stereotipi, come il macellaio o altre ancora che cercano di tenere le donne dentro le mura di casa.
Ci sono anche altri tipi di interferenze dello Stato sulla vita privata?
Il regime controlla i corpi: da quando siamo piccole, siamo sottoposte a degli screening annuali per controllare di essere fertili e anche chi frequentiamo, ciò in cui crediamo. L'immagine più comune è quella di donne sempre in stato di gravidanza. Per poter avere la patente, invece, devi dimostrare con un documento del ginecologo che non sei incinta ma che sei in salute. Però tutto quello che succede tra le mura di casa è responsabilità della parte femminile: se, ad esempio, si denunciano alla polizia violenze da parte del coniuge, i figli vengono allontanati, mentre la donna che ha la colpa di non aver scelto bene il partner deve pagare una multa per aver chiamato le forze dell'ordine. Così si silenziano anche i soprusi peggiori.
In una sua recente intervista ha detto che “Oggi è fondamentale attraversare le frontiere, non solo come confini fisici ma anche come limiti del nostro coraggio”. Ha visto il film "Green borders"?
Sì, l'ho visto. Anzitutto dobbiamo dire che quello che sta avvenendo nel confine tra Polonia e Bielorussia sta succedendo anche al confine con la Lituania. La seconda è che la realtà è peggiore dello sceneggiato, nonostante il grande lavoro della regista per raccontare quella storia. Nel film, infatti c'è un filo di speranza e ci si concentra anche sul gruppo di attivisti che aiutano chi scappa e si ritrova a dover superare il confine. Ma è difficile andare nella foresta ed è pericoloso. Così le persone si trovano nel mezzo di respingimenti da entrambi gli Stati, segnati da fame e freddo.
"Green border" mostra la disumanità ai confini d'Europa
Quanti sono gli obiettori di coscienza in Bielorussia? A cosa vanno incontro?
Le statistiche del governo bielorusso affermano che ci sono 5mila uomini ricercati perché non si sono presentati all'appello di andare in guerra. Secondo le nostre ricerche sono molti di più, perché l'idea di arruolarsi è impopolare e hanno paura di essere spediti in Ucraina. Allo stesso tempo però non è facile dissentire, perché la repressione è forte non solo su chi decide di disertare, ma anche sui familiari, che spesso sono presi come ostaggi. Combattere la propaganda russa e governativa non è facile, ma con la nostra associazione ci proviamo attraverso azioni di sensibilizzazione. Per tanti governi è politicamente vincente aiutare i profughi ucraini, ma non si cerca di fermare le cause di tale fuga. Aiutare chi decide di non arruolarsi andrebbe in questa direzione e avrebbe un impatto enorme.
Lei vive in Lituania, che però non le ha concesso l'asilo perché lei figura tra le migliaia di cittadini bielorussi che sono “una minaccia per la sicurezza nazionale”. Rimarrà nel Paese?
Ho il permesso per motivi umanitari di rimanere ancora per un anno, come per mio marito. Ciò che sta accadendo nei Paesi baltici è che chi è scappato da Russia e Bielorussia è vittima di razzismo e pregiudizi. Anche se siamo in Unione europea, la paura della guerra resta più forte della volontà di aiutare le persone. Sono 2500 i bielorussi che hanno la mia stessa etichetta di "minaccia per la sicurezza": ho una condanna a morte pendente sulla testa e il peso di non poter sentirmi sicura nemmeno nell'Ue. Ovviamente non rischio di essere uccisa in Lituania, ma sono marginalizzata, messa all'angolo. Ero partita con molte speranze, ma ora so che era solo un'illusione quella di trasferirmi in un continente di giustizia e rispetto dei diritti umani.
Oltre l'estetica "rosa" delle proteste bielorusse
Di cosa si occupa Our house?
Aiutiamo obiettori di coscienza in Bielorussia e ora anche in Lituania, ecco perché siamo considerati una minaccia. Diamo beni di prima necessità a chi entra nel Paese scappando e non ha né cibo, né vestiti, né coperte. Ora siamo circa 60 persone ed è difficile poter continuare, perché i numeri di chi ha bisogno sono importanti. Quello che ci fa continuare è la gratitudine di chi ci dice: "Grazie al vostro aiuto sono riuscito a far sopravvivere i miei figli". Questo ci dà speranza e forza. Ma non possiamo fare molto: purtroppo chi ha lo status di richiedente asilo in Lituania non può lavorare, così per mesi intere famiglie sono costrette a non poter far nulla oppure a diventare manodopera illegale, rischiando di essere sfruttati. Serve un cambio di passo.
Dalle sue parole, siamo in una situazione di stallo. È uno degli effetti di quella che lei chiama “guerra latente”?
Sì. Purtroppo, la guerra non finirà presto: sempre più persone scapperanno dalle zone più martoriate e cercheranno rifugio altrove. Se ad aspettarli ci sono pregiudizi e problemi burocratici, il rischio è che subiscano altri traumi. Bisogna ripartire dalla società, dalla popolazione civile, mobilitando e sensibilizzando alle ragioni profonde che spingono a lasciare il proprio Paese. In Bielorussia, invece, dobbiamo parlare di come funziona la propaganda governativa, come la si riconosce e creare un linguaggio alternativo, che sia inclusivo, di dialogo anche tra posizioni davvero lontane. È la sfida più impegnativa: mettere al tavolo ucraini e russi, e non solo pensare a un confronto tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky.
Pacifismo, l'era della disobbedienza nonviolenta
Cosa significa essere pacifisti oggi?
È pericoloso, ma io credo fermamente che sia l'unico modo per fermare l'escalation di violenza che, se continua così, ci porterà verso un'altra guerra mondiale.
Come ha vissuto la morte di Alexei Navalny?
È complicato. Da un lato ci si aspettava questo epilogo, era chiaro fosse sottoposto a torture di ogni genere e il corpo, per quanto forte, cede. È triste ciò che è successo, ma credo anche che sia una possibilità per i russi di iniziare una mobilitazione al fianco di Yulia Navalnaya, moglie di Alexei. Serve provare a pensare a una nuova Russia, democratica e antimilitarista. E lei, pur non avendo esperienza politica, ha il coraggio per farlo.
Cosa significa per lei ricevere il premio Langer? È contenta che l’International Peace Bureau abbia candidato la sua organizzazione al Nobel per la Pace 2024?
È un onore, ma soprattutto una grande opportunità: quella di poter raccontare cosa accade in Bielorussia, parlare di mobilitazione e pace. A livello personale non è facile: nel mio Paese sono una nemica di Lukashenko, una nemica di Putin, ma non sono gradita nemmeno in Lituania per le mie posizioni. Il mio equilibrio e la mia stabilità sono precarie, ma ricevere un premio come il Langer dà la carica per continuare. Non posso fermarmi ora, anche se è impegnativo.
Uno dei tre punti su cui si basa la campagna elettorale di Ursula Von der Leyen, presidente uscente della Commissione europea, è la difesa, con investimenti in armi e armamenti. Cosa si aspetta dalle prossime elezioni europee?
L'Unione europea è nata come potenza della pace e mi auguro questo anche per i futuri rappresentanti delle istituzioni: che abbiano il coraggio di guardare oltre, a una convivenza che vada oltre agli interessi militari.
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