Confine tra Bielorussia e Polonia. Due bimbe davanti al filo spinato sorvegliato dai soldati di Varsavia. Ansa
Confine tra Bielorussia e Polonia. Due bimbe davanti al filo spinato sorvegliato dai soldati di Varsavia. Ansa

Lukashenko li manda. La Polonia li respinge

Nei mesi scorsi migliaia di persone sono arrivate in Bielorussia, sperando di raggiungere l'Europa. Ma il governo di Varsavia ha ostacolato la libertà di informazione e gli aiuti umanitari nella zona di confine, negando il diritto d'asilo nel silenzio dell'Unione: storia dei profughi di serie b

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoGiornalista

21 febbraio 2022

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VARSAVIA - Alah mi invia le ultime novità da Minsk via WhatsApp. Le autorità bielorusse gli hanno lasciato solo tre opzioni: o riprova a entrare in Polonia e rischia la vita, o torna nel suo Paese e rischia la vita, o viene arrestato. "Ho cambiato casa, ma non so per quanto tempo ancora riuscirò a nascondermi", dice. Alah ha 25 anni ed è di Damasco, in Siria. Racconta di una città tranquilla rispetto ad altre, dilaniate dai conflitti. Ma una lettera in arrivo non lo faceva dormire la notte: quella per il servizio di leva che presto l’avrebbe catapultato al fronte. Ecco perché è diventato uno dei tanti migranti che nei mesi scorsi sono atterrati a Minsk. Come molti, sperava di sistemarsi in Germania. Invece è rimasto intrappolato nelle maglie di un cinico gioco politico che ha come protagonisti il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko e i governi degli Stati alle porte orientali dell’Ue: Polonia, Lettonia e Lituania. 

Ai migranti rimasti, Minsk dà tre opzioni: ritentare la sorte alla frontiera, rientrare nel proprio Paese, l’arresto

Il presidente bielorusso è stato accusato di essere l’artefice di una "guerra ibrida", favorendo l’immigrazione clandestina in Europa attraverso i propri confini. I Paesi di frontiera hanno reagito con chilometri di filo spinato. Una mossa che ha incassato il beneplacito della democratica Unione, terrorizzata dalle "nuove armi di Lukashenko": uomini, donne e bambini che per settimane si sono nascosti nella foresta, al freddo e senza cibo né acqua, nel tentativo di raggiungerla. In ottomila, dati Frontex, ci sono riusciti. Qualcuno ci sta ancora provando. In molti no.

L’ultima vittima conosciuta risale al 6 gennaio scorso: si chiamava Avin, aveva 38 anni ed era mamma di cinque bambini. Ne aspettava un altro che ha perso in ospedale subito dopo essere stata soccorsa. Poi anche lei non ce l’ha fatta. Oggi la conta dei morti supera le 20 persone, ma secondo le associazioni umanitarie si tratta di una stima al ribasso, in attesa che la primavera restituisca molti corpi. Tra i sopravvissuti, c’è chi adesso si trova in un centro di detenzione nel Paese Ue d’arrivo ed è in attesa che la propria richiesta di asilo venga vagliata, chi ha accettato di tornare in patria e chi ha deciso di fermarsi a Minsk, ricevendo nelle ultime ore un ultimatum. Come Alah: "Anche se siamo bloccati nella capitale bielorussa e la nostra situazione è pessima – riflette – non possiamo pensare di tornare in Siria, dove le condizioni sono persino peggiori e ci invidiano per essere arrivati fin qui". 

Genesi di un sogno

È l’epilogo di una vicenda iniziata nella primavera 2021, quando in molti Paesi del Medioriente si è diffusa la voce dell’esistenza di una nuova rotta facile ed economica per l’Europa. Aras Palani, un curdo iracheno che oggi fa il traduttore volontario per Grupa Granica, sigla sotto cui sono riunite più organizzazioni non governative polacche impegnate nella difesa dei diritti umani, spiega cosa è successo con una storiella popolare dalle sue parti.

Narra la vicenda di un uomo che entra in una moschea e, non trovando neanche uno spazio libero per pregare, dice ad alcuni fedeli che all’esterno stanno offrendo del cibo. In pochi minuti la moschea si svuota e alla fine anche l’autore della falsa notizia, rimasto da solo, si convince a uscire per vedere se davvero qualcuno fuori sta regalando da mangiare, come dicono tutti.

Hanno venduto casa e fatto debiti pur di comprare un biglietto per Minsk. La maggior parte arriva dall’Iraq e, in particolare, dall’entità federale autonoma del Kurdistan. Di "sfiducia nel futuro" parla Bilal Wahab, ex docente dell’American university in Iraq e ora ricercatore del Washington Institute, think tank statunitense. "Questa gente non parte perché è povera ma perché ha smesso di sperare.
Non crede che l’attuale leadership abbia la capacità di far fronte alle sfide economiche e securitarie". Uno scoramento su cui pesa quanto successo in Afghanistan ad agosto, con la caduta di Kabul nelle mani dei talebani: "Quando sono state trasmesse le terribili immagini degli uomini aggrappati al carrello di un aereo caduti in volo, ho avuto un déjà vu – dice –. Mi ha ricordato di come, nel 2014, le forze militari irachene addestrate dagli Stati Uniti sono collassate e hanno perso tre province in favore dello Stato islamico. Durante un mio viaggio estivo in Iraq, molti mi hanno detto di essere preoccupati per quanto potrebbe succedere se l’America dovesse abbandonare il Paese. Tra la situazione irachena e quella afghana prima dell’estate, ci sono molte analogie. Ma anche importanti differenze".
Quali?
Guardando alle caratteristiche comuni, un governo diviso, corrotto e poco incline a contrastare le milizie sciite appoggiate dall’Iran che in questi anni hanno acquisito molto potere e oggi minacciano la stabilità dello Stato. L’Iraq, però, ha il petrolio e il suo destino è legato alla Siria: gli Stati Uniti non possono lasciarlo senza abbandonare anche quest’ultima. Inoltre, a colmare il vuoto potrebbe essere non un gruppo talebano, bensì l’Isis o l’Iran.
L’esodo ha riguardato soprattutto persone del Kurdistan. Perché?
La guida della regione è passata ai figli dei leader che hanno vinto le elezioni nel 1992. Una generazione che ha perso i contatti con il popolo e allo stesso tempo si sente più titolata a governare della precedente, perché ricca e supportata dai Peshmerga (le forze armate del Kurdistan iracheno, ndr). In realtà, non è stata capace né di creare una stabilità economica né di garantire alla regione una sicurezza a lungo termine. Tutti i giovani sperano di essere impiegati nell’enorme apparato burocratico che prosciuga il 75 per cento del budget governativo. Un altro problema è legato al petrolio: la gran parte dei ricavi dello Stato viene da lì. A causa della contrazione dei prezzi, dal 2014 dipendenti pubblici, dottori e insegnanti non sono pagati in tempo né a salario pieno. 
L’Isis fa ancora paura? 
È una sfida importante, ma ha perso il controllo del territorio: non può considerare sua alcuna città e si è trasformato da gruppo terrorista con una forte presa territoriale a gruppo di insurrezione. Oggi fa un’attività di guerriglia che viene contrastata da un’ampia coalizione internazionale. La sfida crescente sono le milizie, che hanno attaccato Erbil, e contro le quali non c’è alcun fronte comune.
Come mai?
La sfortunata natura delle relazioni internazionali. L’Isis è considerato una sfida globale, le milizie no.

Lo stesso – crede Palani – è capitato con la tratta bielorussa. Quest’estate il successo del viaggio era così garantito da convincerlo fosse la strada migliore per riunire la propria famiglia nel Regno Unito, dove lui ormai vive da oltre vent’anni: più facile persino delle pratiche per il ricongiungimento familiare che, come cittadino britannico, ha più volte chiesto e più volte si è visto negare. "I criteri sono troppo stringenti – afferma –. Abbiamo provato tante altre strade senza successo. Poi è saltata fuori questa novità ed è come se si fosse aperta una grande finestra. Ho telefonato a mia moglie e ai miei figli e gli ho detto di volare a Minsk". 

Battute di caccia in Bielorussia per tutti

La nuova via per l’Europa ha assunto i contorni del mito grazie a un passaparola sia spontaneo sia indotto da trafficanti e agenzie di viaggio che hanno visto nell’occasione una fonte di lucro. Ma nulla sarebbe stato possibile se Lukashenko non avesse modificato le regole d’ingresso nel Paese, seguendo una precisa strategia politica. Cosa sia cambiato me lo racconta Aleksandr Azarov, ex ufficiale bielorusso fuggito in Polonia nel 2020, dopo aver assistito – spiega – ai brogli elettorali che hanno determinato la sconfitta di Svetlana Tikhanovskaya, la sfidante dell’attuale presidente. Con un messaggio su Telegram, l'unico strumento che usa per comunicare, mi dà appuntamento in un elegante caffè di Varsavia: si presenta un uomo con il viso segnato dalle occhiaie e indosso una felpa con scritto I love Ny. Azarov si forza di parlare inglese. 

Ora è un volto di ByPol, gruppo di esponenti delle forze dell’ordine impegnato nel denunciare i crimini di Lukashenko, ma in patria era a capo di un dipartimento della Direzione per la lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione. Tra le altre cose, si occupava di contrastare l’immigrazione clandestina. "Ogni anno – dice – il governo stila una lista di Paesi considerati problematici sotto il profilo migratorio, come Afghanistan, Iraq, Vietnam, Siria, Pakistan e Nigeria. Le persone che si trovano in questi Stati possono avere il permesso di entrare in Bielorussia solo per particolari motivi". 

La regola sarebbe venuta meno a maggio scorso, quando le autorità "hanno cominciato a rilasciare il visto turistico a chiunque e senza alcuna limitazione". Il risultato è stata una migrazione che una fonte a Minsk mi ha descritto con le parole "mai vista" e non solo per quantità, anche per tipologia: "Famiglie e giovani uomini della piccola e media borghesia che dormono negli alberghi del centro della città". I giornali bielorussi parlano di circa ventimila persone, però non esistono dati ufficiali attendibili. Tra loro, siriani, afghani, ma soprattutto iracheni. E proprio a partire da maggio 2021, Dossier center, un centro investigativo che ha condotto un’indagine su questi viaggi insieme al quotidiano tedesco Der Spiegel, ha riscontrato un incremento dei passeggeri sui voli da Baghdad a Minsk, tanto che la compagnia aerea Iraqi Airways ha aggiunto una corsa in più a settimana: erano quattro, sono diventate cinque. 

Dal Kurdistan a Minsk

Per i familiari di Palani ottenere il necessario alla partenza è stato semplice. È bastato rivolgersi a uno dei tanti operatori turistici dell’Iraq. Loro si sono occupati di acquistare i biglietti aerei, ma soprattutto di recuperare il visto grazie all’intermediazione di un’agenzia di viaggi a Minsk: in tutto sono una dozzina quelle che avrebbero favorito il giro d’affari. Stando ai documenti ottenuti dal centro investigativo, un ruolo centrale l’ha svolto CenterKurort, una compagnia turistica statale incorporata nell’ufficio di Lukashenko.

"Gli iracheni che abbiamo intervistato – mi ha scritto un portavoce del Dossier center – hanno ricevuto il visto non dal ministero degli Esteri bielorusso, ma da questa agenzia". Il più rilasciato era legato a battute di caccia nella foresta bielorussa perché permetteva di evitare i giorni di autoisolamento imposti dalle norme anti-covid. L’hanno ottenuto tanto gli uomini quanto le donne e i bambini. Sia Alah sia Ares dicono che a novembre il costo del pacchetto base si aggirava intorno ai quattromila euro a persona e comprendeva: visto, soggiorno in un hotel di Minsk, volo di andata così come quello di ritorno, il cui acquisto era obbligatorio. Il prezzo totale del viaggio, inclusi gli spostamenti all’interno dell’Europa, non superava i diecimila euro. 

Le responsabilità di Lukashenko

Tutti i migranti con cui ho chiacchierato in Polonia mi hanno raccontato che per muoversi dal centro della capitale bielorussa alla zona di confine si sono auto-organizzati con taxi, pulmini privati o mezzi pubblici. Ma Azarov sostiene che nelle prime settimane erano gli uomini delle forze speciali del Paese ad accompagnarli alla frontiera. Poi non ce ne sarebbe stato più alcun bisogno e si sono limitati – su questo le testimonianze concordano – a impedirgli di fare marcia indietro, spesso minacciandoli con dei cani, e a fornire strumenti utili per passare dall’altra parte. 

A maggio le autorità hanno iniziato a rilasciare il visto turistico a chiunque, senza limitazioni

L’ex ufficiale aggiunge qualche dettaglio in più parlando di un piano ideato dal Kgb, l’intelligence dell’ex repubblica socialista, in sinergia con l'Fsb, la controparte di Mosca. "Si chiama operazione Closed – prosegue – e quando hanno deciso di lanciarla hanno modificato anche la norma che impedisce ai migranti di avvicinarsi alla zona di confine, pena multa, rimpatrio, o arresto. Sono stati lasciati liberi di circolare". Affermazioni che sembrano trovare conferma nelle dichiarazioni di una guardia di frontiera di Minsk raccolte da una giornalista del quotidiano polacco Gazeta Wyborcza: "Sappiamo che le autorità stanno conducendo quest’operazione in collaborazione con i servizi di sicurezza – ha detto –. Abbiamo l’ordine di non fermare i migranti irregolari, non dobbiamo né mandarli nei centri temporanei né controllare la loro identità". Rispondendo alla Bbc, Lukashenko ha giudicato "assolutamente possibile" che le sue forze dell’ordine abbiano aiutato i migranti ad attraversare la frontiera. Del resto, il 22 giugno lui stesso ha reso pubblico il nuovo corso dicendo di non essere più intenzionato a proteggere l’Unione né dai trafficanti di droga né dalle persone in transito. 

Motivo ufficiale della rappresaglia: le sanzioni adottate dal Consiglio Ue per la repressione portata avanti dall’ultimo dittatore d’Europa nei confronti dell’opposizione, culminata il 23 maggio 2021 con il dirottamento del volo Ryanair su cui viaggiavano l’attivista Roman Protasevich e la fidanzata Sofia Sapega, entrambi arrestati. Motivo ufficioso, secondo alcuni, far in modo di rendersi insostituibile agli occhi dell’alleato Vladimir Putin e sostenere le sue ambizioni in Ucraina. Anche alla Bbc, però, Lukashenko ha continuato a negare di aver "invitato i migranti" e incolpato della situazione l’Ue che, introducendo le nuove misure, sarebbe venuta meno a un accordo di riammissione siglato con Minsk. Un patto che permette agli Stati europei di rispedire indietro chi arriva dalla Bielorussia, in cambio di fondi per la costruzione di strutture destinate a queste persone. In altre parole, di tanti soldi per tenere chiuse le porte d’Europa. 

L'articolo prosegue dopo le Stories dalla frontiera tra Bielorussia e Polonia

La Polonia li respinge

"Se il regime bielorusso vuole portare avanti la propria agenda usando degli innocenti, la Polonia, a cui piace definirsi uno Stato democratico ed europeo, non deve assecondarlo facendo il suo gioco". Kalina Czwarnóg, 33enne al lavoro per l’associazione Fundacja Ocalenie, riflette su quanto sia stato complesso in questi mesi dare assistenza a chi è arrivato alla frontiera polacca. Complessità che dura tutt’ora.

Anche se sa di non fare nulla di male, Kalina sente di vivere in uno stato di perenne paura che a volte l’ha spinta persino ad avventurarsi nella foresta senza accendere la torcia. Ripete che la solidarietà è stata criminalizzata e dà conto di un fatto: per l’ennesima tragedia alle nostre porte, Lukashenko ha ricevuto unanime condanna da parte di tutti i leader europei. Diverso è stato l’atteggiamento nei confronti del modus operandi adottato dagli stati di confine e, in particolare, dalla Polonia, dove a partire dall’estate si è indirizzato il grosso del flusso.

La crisi che non c’è, ma conviene 

L’apice della tensione è stato toccato il 9 novembre, quando una fiumana di gente ha raggiunto il valico della città di Kuznica e provato a far venir giù il muro di filo spinato con alberi e cesoie. Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale, ha fatto notare che in quei giorni la "crisi migratoria" presentava numeri esigui e gestibili: secondo le stime più alte non più di 2500 persone. Eppure ciò non ha impedito al governo di destra guidato da Mateusz Morawiecki di agitare lo spettro dell’invasione, presentandosi in un’audizione europarlamentare come il difensore dei confini Ue. Ancora oggi non passa giorno senza che l’account Twitter ufficiale della Guardia di frontiera di Varsavia non pubblichi foto di uomini e donne in divisa schierati a difesa della barriera, o video degli attacchi condotti dai migranti con il "supporto dei soldati bielorussi".

È importante allargare la prospettiva per osservare le grane con cui Morawiecki deve fare i conti al momento. Da una parte, un crescente calo nei sondaggi del proprio partito, Diritto e giustizia (PiS). Dall’altra, un braccio di ferro con i vertici dell’Unione sullo stato di diritto del Paese. Difficile non pensare che a Morawiecki la "crisi" convenga e difficile avere un controcanto istituzionale. Alla possibilità di un’intervista nel merito, un portavoce del governo si è più volte detto disponibile, per poi svanire nel nulla. Non semplice anche verificare la realtà della situazione. L’attività dei giornalisti, così come quella delle associazioni, è stata ostacolata dall’introduzione dello stato di emergenza che ha imposto una serie di restrizioni nella lingua di terra a tre chilometri dalla Bielorussia, limitando gli aiuti umanitari e la libertà di informazione.

Il presidente bielorusso Lukashenko è stato condannato da tutti i leader Ue, che invece tacciono sulla violazione dei diritti dei migranti da parte dello stato polacco

Stato di guerra

A fine novembre, quando per lavialibera ho visitato la zona, i controlli erano continui e snervanti. Oltre 30 chilometri prima dei valichi i cellulari stranieri ricevevano un messaggio indirizzato ai migranti firmato dal ministero dell’Interno, con questo testo: "La frontiera è sigillata. Le autorità bielorusse vi hanno mentito. Tornate a Minsk!". Più vicino ho incontrato posti di blocco della polizia all’entrata e all’uscita delle strade principali e soldati assiepati nelle buche a margine dei sentieri sterrati. Altri giravano a bordo di auto senza alcun segno distintivo che d’improvviso bloccavano il passaggio per chiedere i documenti e l’apertura del portabagagli. Il provvedimento è stato approvato agli inizi di settembre e prorogato di mese in mese fino a dicembre, quando sono state decise nuove regole.

Nei fatti sembra che non sia cambiato molto: i media possono fare richiesta di accesso e, se accolta, vengono accompagnati in una sorta di tour guidato. Il 6 gennaio Medici senza frontiere ha annunciato l’abbandono del Paese, firmando un duro comunicato stampa: "Tre mesi dopo l’invio di un’équipe di emergenza – si legge –, siamo costretti a concludere l’intervento in Polonia a causa del continuo rifiuto delle autorità polacche di concedere l’accesso all’area di confine con la Bielorussia, dove gruppi di persone sopravvivono a temperature inferiori allo zero con un disperato bisogno di assistenza medico-umanitaria". Chi ha voluto dare aiuto, l'ha fatto rischiando di essere accusato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.

HAJNÓWKA - Un uomo guida sulla statale che collega Varsavia ai paesi di confine con la Bielorussia, una strada lunga e a tratti così buia da sembrare inghiottita dal bosco. Parla del suo lavoro nel campo finanziario dando di tanto in tanto un'occhiata alla mappa che ci guida, sull’ultimo modello di un iPhone. Le dita tamburellano sul volante, nervose. Poi, solo per un istante, si volta e d’un fiato confessa: “Io ne ho trasportati quattro”. Quattro che? “Migranti. Due giovani iracheni e una donna siriana con una bimba piccola che per il mal d’auto ha vomitato tutto il tempo. Li ho accompagnati nella capitale per evitare che venissero rispediti indietro”.
Iwo, nome di fantasia, fa parte di una rete di attivisti e cittadini della Polonia che aiuta chi è riuscito ad attraversare la frontiera ad allontanarsi dalla zona di confine. È una rete clandestina, che si fonda sul passaparola, su itinerari protetti e luoghi sicuri. Come la Ferrovia sotterranea, il network di abolizionisti che nell’Ottocento forniva supporto agli schiavi afroamericani in fuga dal Sud al Nord degli Stati Uniti, a cui è ispirato l'omonimo romanzo dello scrittore Colson Whitehead, vincitore del premio Pulitzer. L’obiettivo lo spiegano alcuni attivisti che hanno deciso di denunciare a lavialibera una "situazione inumana": rendere più difficili i respingimenti in Bielorussia che le autorità di Varsavia stanno conducendo nei confronti dei migranti intercettati in territorio polacco, senza tener conto della volontà di chiedere asilo. Una pratica che in teoria viola la Convenzione di Ginevra e i trattati internazionali, ma di fatto viene adottata in molti Stati alle porte d’Europa. I ribelli sono circa un centinaio, forse anche di più, ma è impossibile saperlo con esattezza perché "per paura" non ne parlano con nessuno, “neanche con i propri parenti”: per comunicare usano app di messaggistica sicura e chat che scompaiono dopo pochi minuti. “Quelli come me – dice Iwo – sono solo l’ultimo anello di una complessa catena organizzativa. Prima di salire in auto, ogni persona è stata nascosta, nutrita, e informata su dove farsi trovare, e a che ora. Serve un grande lavoro di logistica”.
C'è chi gestisce le richieste di aiuto dei migranti nascosti nella foresta, chi organizza i dettagli dei viaggi, e poi ci sono gli abitanti dell’area d’emergenza: il lenzuolo di terra che si trova a tre chilometri dal confine e a cui, per volere del governo polacco, da quasi tre mesi non possono accedere né le organizzazioni umanitarie né i giornalisti. Ai residenti spetta il compito di lasciare cibo, acqua e vestiti in determinati punti del bosco. Alcuni fanno di più: in attesa del momento giusto per farli scappare, ospitano i migranti in casa, “preparandogli anche da mangiare”. Il piatto più richiesto, assicura Iwo, è il “minestrone: l’ideale dopo tanti giorni passati al freddo”.
Il trasporto è affidato a gente che arriva dalle città: donne e uomini, spesso giovani, che prendono una settimana di ferie dal lavoro e a volte macinano centinaia di chilometri, rischiando di farsi arrestare dalle forze dell’ordine che presidiano le strade del Paese dall’inizio della crisi. È successo a Pawel e Justyna Wrabec, entrambi attivisti di Obywateli RP, un movimento politico che porta avanti azioni di disobbedienza civile. Seduti sulle panche di legno di una tipica trattoria di Hajnówka, piccolo comune della Polonia nord-orientale, raccontano di aver cominciato a fare avanti e indietro dal confine a casa loro, che si trova a oltre 700 chilometri di distanza, ad agosto. Guardando le immagini dei bambini davanti al filo spinato, Pawel ha pensato ai suoi antenati sterminati durante la guerra e ai racconti degli ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento, ascoltati da ragazzo, che gli hanno fatto capire l’importanza di trovare aiuto. Justyna non ce l’ha fatta ad accettare l'idea di rimanere sul divano tranquilla, mentre le “persone muoiono nella foresta. Nessuno merita di morire in questo modo”.
Si sono messi in auto e hanno offerto un passaggio a chi hanno trovato per strada. Qualcuno sono riusciti a “metterlo in salvo”, dicono, poi li hanno fermati. Si trovavano poco lontano da qui, quando il 28 ottobre scorso sono stati bloccati da una macchina della polizia. A bordo della loro Nissan trasportavano due ragazzi iracheni. “Ci hanno ammanettati e portati in prigione – ricorda Justyna –. Durante la perquisizione, io sono stata anche denudata. Abbiamo subito un interrogatorio lungo quattro ore. Dopo di che, ci hanno sistemato in due celle separate, senza darci la possibilità di parlare, e ci hanno fatto passare la notte in carcere. È stata un’esperienza traumatica, ma ancor più traumatico è stato vedere i ragazzi portati via dalla guardia di frontiera. Ci avevano detto di essere rimasti nella foresta per 40 giorni, erano stremati: uno dei due, che avrà avuto non più di 18 anni, è scoppiato in lacrime”.
Ora Pawel e Justyna rischiano di essere processati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, la pena può arrivare fino a otto anni di carcere. Hanno un po’ paura, ma lo rifarebbero: “Il governo ha adottato una politica criminale e inumana, rendendo illegale l’unico aiuto possibile. Sappiamo che là fuori ci sono ancora centinaia di donne, uomini e bambini. E non sono attrezzati per l'inverno”, spiegano. Intanto, cade la prima neve.

Un’altra ferita aperta è l’emendamento approvato dal Parlamento a ottobre che ha di fatto legalizzato i respingimenti. I rifugiati che riescono a entrare in territorio polacco vengono riportati in Bielorussia, senza tener conto della loro volontà di chiedere asilo. La pratica viola i trattati internazionali ma nei mesi scorsi è diventata prassi quotidiana. Lo testimonia la storia di Nadir, cittadino britannico di origini irachene. Lo incontro ad Hajnówka, piccolo comune della Polonia nord-orientale, in una casetta di legno che sembra inghiottita dal bosco. Nadir mi racconta di aver comprato il biglietto Erbil-Minsk per la madre dei suoi due figli e quando gli hanno detto che era finita in un ospedale polacco, ha preso il primo volo Londra-Varsavia "ma non mi hanno dato nemmeno il tempo di arrivare che l’avevano già deportata". Alla fine, pagando diversi trafficanti, è riuscito a riabbracciarla ma è stata dura – spiega – mostrando con le lacrime agli occhi una foto. I volontari l’hanno scattata a sua moglie durante l’operazione di soccorso nel bosco: si vede uno scricciolo avvolto in una coperta termica, esanime e con la pelle livida.

La complicità dell’Europa 

L’Europa ha prima tenuto una posizione ambigua: ha evitato di prendere posizione sui respingimenti, che riguardano anche il versante lituano, pur dicendo di avere "diversi interrogativi". La Germania, meta finale di molti, si è detta non intenzionata a chiudere i propri confini, e allo stesso tempo ha offerto il proprio aiuto alla Guardia di frontiera polacca. Poi il doppio gioco ha lasciato spazio a una presa di posizione più netta. Il primo dicembre la Commissione europea ha presentato misure d’emergenza che permettono ai tre Stati confinari di registrare le domande d’asilo solo in determinati luoghi fisici collocati vicino ai valichi e con tempi più lunghi: quattro settimane anziché i tre-dieci giorni prima previsti. 

Procedure più "semplici e veloci" sono state invece stabilite per i rimpatri. Un pacchetto che, ha commentato Gianfranco Schiavone dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), "sembra essere indirizzato a creare una procedura di frontiera speciale che ha l’obiettivo di comprimere il diritto d’asilo attraverso un esame sommario delle domande, il cui esito è scontato sin dall’inizio".

Omar ha accettato di tornare in Iraq in uno dei 10 voli di rimpatrio organizzati dal governo iracheno da novembre in poi. Ha ripreso la sua vita di sempre e mi manda foto dall’autosalone in cui lavora qualche ora a settimana. Ha tentato la traversata con il fratello malato, che a tratti ha dovuto caricare sulle spalle, sognando un futuro migliore a Berlino perché nella sua città, Duhok, non sa cosa aspettarsi dal domani e la sua laurea in informatica non gli sta servendo a molto. Del viaggio conserva immagini, video e ricordi, tutti non piacevoli: le violenze dei bielorussi, i vestiti bagnati dopo aver guadato fiumi gelidi, la fame che gli attorcigliava lo stomaco. "Ci hanno presi in giro e usati", sbotta. Pensa male di Lukashenko, ma anche dell’Europa non ha una buona opinione: "Potevano fare un piccolo sforzo e accoglierci. Non eravamo mica così tanti". Non vuole viverci più, assicura, però spera ancora di visitarla da turista: "È bella".


La nostra cronaca dal confine tra Polonia e Bielorussia

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