Dal crimine alla comunità: il riuso sociale dei beni confiscati avanza in Europa

Ispirandosi all'Italia, diversi Paesi europei cercano di dare nuova vita a edifici, terreni, perfino barche appartenute a mafiosi o narcotrafficanti. Ma gli ostacoli economici e burocratici sono ancora molti. Un reportage tra Italia, Spagna e Romania

Natalie Sclippa

Natalie SclippaRedattrice lavialibera

Paolo Valenti

Paolo ValentiRedattore lavialibera

31 ottobre 2024

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Una cascina in mezzo ai campi nella periferia sud di Milano, dove convivono richiedenti asilo, minori allontanati dalla famiglia e anziani. Una barca a vela che solca le acque al largo della Galizia, in Spagna, permettendo a persone con disabilità di scoprire il mare da un'altra prospettiva. Una villa circondata da un frutteto a Traian, in Romania, destinata a diventare una casa di riposo. Separate da centinaia di chilometri, queste realtà condividono una storia comune: erano in mano alla criminalità, prima di essere sequestrate dalle autorità e restituite alle comunità. Sono esempi di riutilizzo sociale dei beni confiscati, una pratica che, nata in Italia, sta guadagnando sempre maggiore riconoscimento a livello internazionale come strumento di contrasto alla criminalità e di giustizia riparativa.

Secondo un rapporto redatto nel 2020 dalla Commissione europea, 19 Stati membri su 27 hanno adottato leggi che permettono e incoraggiano il riutilizzo sociale. Tra questi, oltre all'Italia, anche la Spagna e la Romania, dove la società civile e gli enti locali sono impegnati per rimuovere gli ostacoli che rendono questa pratica ancora marginale. Insieme alla redazione spagnola di Maldita.es e a quella rumena di Scena9 abbiamo esplorato esempi di beni confiscati che hanno trovato o stanno cercando una nuova vita, alla ricerca degli ostacoli e delle possibili soluzioni.

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Il riutilizzo sociale dei beni confiscati, dall'Italia all'Europa

La pratica del riutilizzo sociale dei beni confiscati è nata alla fine del secolo scorso in Italia con la legge 109/96, presentata dall'allora deputato Giuseppe Di Lello Finuoli, ex magistrato del pool antimafia. La società civile giocò un ruolo fondamentale, riuscendo a raccogliere più di un milione di firme a sostegno della proposta. La legge rappresentava una grande innovazione nella lotta al fenomeno mafioso: l'idea che la repressione militare non bastasse più, ma servisse colpire le enormi riserve di capitale tramite cui le mafie si alimentavano. Nei decenni successivi, diversi paesi europei (e non solo) hanno preso ispirazione dall'esempio italiano dotandosi di strumenti simili. Lo stesso ha fatto l'Unione europea, che lo scorso aprile ha adottato la direttiva 2024/2016 per rafforzare e uniformare le pratiche di sequestro, confisca e riutilizzo tra gli Stati membri.

Lo scorso aprile, l'Unione europea ha adottato una nuova direttiva per rafforzare confisca e riutilizzo. Ma "serve ancora un salto di qualità ideologico"

"Il testo contiene misure di fondamentale importanza – spiega a lavialibera il prefetto Bruno Corda, fino allo scorso agosto direttore dell'Agenzia Nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc) –. Serve però un salto di qualità ideologico nelle coscienze e nelle leggi di tutti gli Stati membri. Solo quando smetteremo di trattare la criminalità come un corpo estraneo e capiremo invece che vive della commistione e della compromissione con la società sana capiremo il vero valore del riutilizzo sociale". Per Tatiana Giannone, responsabile del settore beni confiscati di Libera, la chiave è la collaborazione "tra pubblico e privato, tra istituzioni e società civile, ma anche tra le diverse agenzie nazionali". 

L'utilizzo sociale dei beni confiscati, una storia di oltre 25 anni

Italia: fare rete per superare lo "shock di legalità"

In Italia, la pratica del riutilizzo sociale dei beni confiscati è ormai consolidata, anche se non mancano gli ostacoli. Al 31 dicembre 2023, stando all'ultima relazione dell'Agenzia nazionale, i beni immobili confiscati erano 43.422, concentrati soprattutto nel Mezzogiorno (nell'ordine, Sicilia, Campania, Calabria, Puglia), ma con una fetta consistente anche in Lombardia. Di questi, il 55 per cento (23.658 beni) è stato assegnato per il riutilizzo, mentre il restante 45 per cento rimane sotto la custodia dell'Agenzia nell'attesa di un'assegnazione. In altre parole, l'offerta supera la domanda. O meglio, i bisogni di spazi e servizi a cui quei beni potrebbero rispondere sono molti, ma ciò che manca spesso alle comunità locali sono le risorse necessarie per prenderli in gestione e farli funzionare. "In molti casi abbiamo una concentrazione altissima di beni in piccoli comuni dove le autorità locali e la società civile non sono sempre in grado di costruire un progetto di riutilizzo sostenibile e metterlo in pratica", dice Corda. In quei casi, la chiave è "incoraggiare la cooperazione tra comuni e associazioni diverse, per unire le forze”. 

Casa Chiaravalle, nella periferia sud di Milano, ne è un esempio. Bene confiscato più grande della Lombardia, comprende due cascine dalla superficie totale di 1.300 metri quadrati e sette ettari di terreno. Qui Pasquale Molluso, trafficante di armi e di droga, viveva insieme alla sua famiglia prima dell'arresto e del sequestro della proprietà, avvenuto nel 2009. Nel 2013 il trasferimento al Comune di Milano, che nel 2017 ha affidato il bene a un consorzio di cooperative, che oggi si chiama Passepartout. "Se non avessimo avuto cinque organizzazioni solide, in grado di ottenere un prestito in banca, raccogliere donazioni e investire i soldi messi da parte grazie alle varie attività, questo non sarebbe stato possibile", racconta Marco Lampugnani, presidente del consorzio.

Casa Chiaravalle, Milano. Foto di Paolo Valenti
Casa Chiaravalle, Milano. Foto di Paolo Valenti

Oggi, Casa Chiaravalle ospita un particolare "mix abitativo", come ama chiamarlo Marco: anziani che vivono in un alloggio sociale, senzatetto, minori allontanati dalle famiglie d'origine, richiedenti asilo. L'arredamento è sobrio. Solo i marmi pregiati che coprono i pavimenti e l'ampiezza degli spazi lasciano intuire il lusso in cui vivevano gli ex proprietari. "Hanno portato via tutto prima che arrivassimo", continua Marco. "Questo è uno dei problemi legati al fatto che passa troppo tempo tra sequestro, confisca e assegnazione". I lavori di ristrutturazione si sono rivelati più lunghi, costosi e complessi del previsto: "Non c'era allacciamento al sistema fognario, sversavano illegamente nei campi. In tutto, abbiamo investito un milione di euro". 

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L'investimento necessario per adattare i beni al nuovo utilizzo rappresenta spesso un ostacolo per le realtà associative che vorrebbero prenderli in gestione, considerato anche che la concessione ha una durata limitata senza certezza di rinnovo. Per porre rimedio, lo scorso gennaio il Comune di Milano ha introdotto nuove regole, secondo cui la durata della concessione potrà essere adattata in funzione dell'investimento realizzato e, una volta scaduta, i nuovi gestori si faranno carico dei costi non ancora ammortizzati da quelli precedenti. 

In Italia si contano 3,225 aziende confiscate, ma solo il 5% è riuscito a tornare operativo nell'economia legale

La necessità di grossi investimenti e capacità gestionali rappresenta una sfida ancora più grande per le aziende confiscate. In Italia ce ne sono 3.296, stando al registro dell'Agenzia, ma secondo la relazione 2023 solo il 5 per cento è tornato operativo sul mercato. Il 68 per cento è considerato "non in grado di continuare o diriprendere l’attività economica dichiarata" e il restante 27 per cento potrebbe farlo solo "in seguito ad una mirata attività di stimolo". La ditta di trasporti su gomma Geotrans, con sede a Catania, rientra in quel 5 per cento virtuoso. Fondata negli anni Novanta da esponenti della famiglia Ercolano-Santapaola, è stata sequestrata nel 2014 e posta sotto amministrazione giudiziaria. Nel 2020 è poi diventata una società cooperativa nelle mani degli stessi lavoratori, grazie al meccanismo del "workers buyout". Superare lo "shock di legalità", cioè il passaggio all'economia legale, non è stata una sfida semplice, ricorda il presidente Maurizio Faro: "All'inizio ci siamo trovati senza clienti. L'azienda lavorava soprattutto con il settore agricolo, che registra altissimi livelli di infiltrazione criminale, quindi molti hanno deciso di tagliare i ponti. Altri hanno fatto lo stesso perché vedevano che molte aziende confiscate chiudevano nel giro di pochi mesi". 

Geotrans, Catania. Foto di Paolo Valenti
Geotrans, Catania. Foto di Paolo Valenti

La chiave è stata fare rete con altre aziende che condividono gli stessi valori: "Se produco formaggio e ho a cuore la legalità e l'antimafia, perché non affidare la distribuzioe a un'azienda come Geotrans?", dice Faro. Coltivando legami con il mondo cooperativo, negli anni Geotrans è riuscita a ritagliarsi uno spazio del mercato e oggi distribuisce prodotti agricoli dalla Sicilia ai supermercati di tutta Italia. Ma l'impatto di storie come questa non si limita all'azienda e ai suoi lavoratori, come spiega il prefetto Corda: "Quando una ditta gioca con carte false, non paga le tasse, non rispetta i diritti dei lavoratori o opera nell'illegalità, tutte le attività di quel territorio tenderanno ad adattarsi a quei metodi per stare nel mercato. Così, riportare quell'azienda all'economia legale significa contribuire a ripristinare un sistema di competizione sana di cui beneficia tutto il territorio”. 

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Spagna: per "spiegare le vele" serve una riforma

L'esperienza spagnola in fatto di confisca e riutilizzo ha a che fare soprattutto con il narcotraffico. Nel 2003 è stato istituito il Fondo per i beni confiscati derivati dal traffico illegale di droga, parte del Piano nazionale sulla droga (Pnsd) del ministero della Salute. Quanto sequestrato nelle operazioni antidroga viene posto sotto custodia giudiziaria fino alla sentenza. In caso di condanna, i beni vengono quindi confiscati diventando patrimonio dello Stato per poi essere venduti, messi all'asta o assegnati per il riutilizzo. La legge, però, definisce il ricorso a questa terza opzione "eccezionale", e i dati ottenuti da Maldita.es tramite richiesta di accesso civico mostrano che solo il 3,35 per cento dei beni non venduti né messi all'asta tra il 2018 e il 2024 è stato destinato a questo scopo. Enti locali e associazioni che promuovono il riutilizo sociale chiedono di rendere le procedure più snelle e flessibili per evitare che i beni rimangano abbandonati. "Quando non viene venduto, quel bene può offrire un servizio alla società", dice Fernando Alonso, direttore della Fondazione galiziana contro il narcotraffico. Sempre secondo i dati ottenuti da Maldita.es, 4.145 beni sono stati abbandonati tra il 2018 e il 2024 per diverse ragioni, dai tempi prolungati del processo giudiziario al deterioramento. 

Un esempio virtuoso è la villa Finca El Campell a Pedreguer, comune di 8mila abitanti sulla costa della Comunità valenciana. Fino al 2006 appartenuta al narcotrafficante Francisco Javier Martinez Sanmilla, conosciuto come "Franky", oggi ospita gli uffici di Amadem, associazione impegnata nell'assistenza delle persone con problemi di salute mentale, e una comunità di riabilitazione e prevenzione delle dipendenze. Ma parte dei 400 metri quadrati della villa rimangono ancora inutilizzati e il consiglio comunale lavora per metterli a frutto presto, anche per ripagare i 250mila euro investiti nei lavori di ristrutturazione. Altrimenti, il rischio è che la struttura torni al Fondo, che potrebbe metterlo all'asta.

In Galizia, la barca a vela Laion, un tempo veicolo di droga, è diventata strumento di integrazione per le persone con disabilità

In Galizia, la barca a vela Laion continua a solcare le acque al largo di A Coruña, ma con uno scopo diverso rispetto al passato. Sequestrata ai narcotrafficanti alla fine degli anni Novanta, è stata affidata all'ong Cogami, che oggi la utilizza per permettere a chi ha disabilità di fare esperienza del mare da un'altra prospettiva. Non solo: grazie al Laion, Emily e Damián González, fratelli di otto e dieci anni, hanno potuto conoscere altri amici, come racconta la madre.

Velero Laion, A Coruna (Spagna). Foto Luis Soto
Velero Laion, A Coruna (Spagna). Foto Luis Soto

Tra il 2013 e il 2023 in Spagna sono state sequestrate 1.340 imbarcazioni. I veicoli restano il bene sottratto con più frequenza alla criminalità (7.833), seguito da "oggetti" (telefoni, arredamento, abbigliamento), aziende (2.025), beni immobili (1.025) e gioielli (869). Il caso del Laion è eccezionale: la Corte suprema spagnola ne ha ordinato il trasferimento diretto all'associazione perché, all'epoca, il Fondo per i beni confiscati non era ancora operativo. Non solo: l'affidamento non ha una durata prestabilita, il che permette a Cogami di gestirlo con maggiore tranquillità: "Non investi la stessa somma nella manutenzione della barca se sai che dopo cinque anni non potrai più utilizzarla", spiega la coordinatrice Isabel Gonzalez.

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Romania: tra buone intenzioni e ostacoli burocratici, la strada è ancora lunga

"Gli imputati preferiscono andare in carcere piuttosto che vedersi sottratte le ricchezze", diceva nel 2018 Laura Codruța Kovesi, allora procuratrice capo della Direzione nazionale anticorruzione rumena, oggi al vertice della Procura europea. Dieci anni prima, il boss italo-americano Francesco Inzerillo veniva intercettato nell'ambito dell'operazione Old Bridge mentre diceva: "Cosa peggiore della confisca dei beni non c'è, meglio andarsene". 

Dei 129 beni confiscati in Romania dal 2016, solo due sono coinvolti in progetti di riutilizzo. Servono più fondi e meno burocrazia

Nel 2015, la Romania ha istituito l'Agenzia nazionale per la gestione dei beni sequestrati (Anabi), che condivide con l'Agenzia nazionale per l'amministrazione fiscale (Anaf) la responsabilità per il mantenimento e il riutilizzo dei beni. Sul sito dell'Anabi si trovano annunci di aste su macchine di lusso, orologi, lingotti d'oro, perfino metri cubici di sughero confiscato, ma anche avvisi riguardo a immobili in cerca di affidatari. Delle 129 proprietà sequestrate e trasferite al patrimonio dello Stato dal 2016 al 2023, solo due però sono coinvolte in progetti di riutilizzo sociale. Nel 2020, il primo progetto è stato annunciato con grande enfasi: un palazzo di vetro e acciaio nel centro di Bucarest, il cui proprietario era stato condannato per reati finanziari, sarebbe dovuto diventare la nuova sede della Direzione nazionale per la messa alla prova. A quattro anni di distanza, l'edificio è occupato temporaneamente da un altro ente istituzionale, l'Amministrazione penitenziaria nazionale, che attende la ristruttrazione della propria sede.

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Ci vogliono diversi anni perché un bene diventi patrimonio dello Stato, e altrettanti prima che diventi utilizzabile dalla comunità: "Il problema è la burocazia", spiega Radu Nicolae, esperto di anticorruzione e confisca e presidente dell'Associazione per la cooperazione e lo sviluppo sostenibile. "Servono fondi per tinteggiare le pareti, riorganizzare gli spazi, realizzare la rete elettrica, trasportare e installare gli strumenti necessari. E bisogna prima preventivare le spese, poi indire una gara, realizzare i lavori e solo alla fine può entrare in funzione e accogliere le persone".

Villa confiscata, Traian (Romania). Foto di Ioana Cîrlig
Villa confiscata, Traian (Romania). Foto di Ioana Cîrlig

Nel Nord del Paese, c'è chi è più ottimista. "Non possiamo permetterci di fallire", dice Sorin Gherghelucă, sindaco del piccolo comune di Traian. Ha in mano le chiavi del primo edificio confiscato e destinato al riutilizzo sociale in Romania: una villa a due piani di un arancione lussureggiante, che si affaccia su un enorme frutteto abbandonato con meli, prugne e ciliegi. È stata sequestrata sette anni fa a un personaggio locale piuttosto noto per un caso di frode fiscale e appropriazione indebita. Quando, lo scorso aprile, il sindaco ha notato l'annuncio sul sito dell'Agenzia, ha subito inviato la richiesta per farne una casa di cura per anziani. 

Ma la sfida più difficile arriva adesso, dopo la consegna delle chiavi: il Comune sta cercando associazioni impegnate nell'assistenza alle persone anziane e finanziamenti per la ristrutturazione. "Spero che la prossima volta che verrete vedrete qualcuno che ci abita", dice ai giornalisti di Scena9. Gherghelucă sa che c'è un grande bisogno di strutture di questo tipo nel suo territorio: continua a ricevere messaggi da persone che vivono ormai all'estero ma sono preoccupati dei familiari anziani rimasti a Traian. La popolazione del comune sta invecchiando, in un Paese in cui i servizi di assistenza e di cure palliative sono carenti. Nell'attesa, è il sindaco a rimboccarsi le maniche in prima persona: tra appalti e richieste di finanziamento, promette di trovare il tempo per potare le piante del frutteto perché siano pronte ad accogliere i primi ospiti, quando sarà il tempo. L'idea è che gli anziani stessi si prendano cura del frutteto e ne mangino i prodotti. "Ne faremo qualcosa di bello", dice sorridendo.

Perché sempre più beni confiscati possano trovare una nuova vita serve innantutto far sapere a enti locali e organizzazioni della società civile che esiste questa possibilità, dice l'esperto Radu Nicolae. Poi, occorre formarli e dare loro le risorse necessarie quanto meno per i lavori di ristrutturazione. “Possiamo seguire l'esempio dell'Italia, che ha destinato alla riqualificazione dei beni confiscati parte dei fondi europei”. In effetti, il governo Draghi aveva stanziato 300 milioni del Pnrr per questo scopo, ma lo scorso marzo l'esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha rimodulato il piano eliminando questa voce

Infine, serve snellire l'iter burocratico. “Credo che se perseveriamo nei prossimi 5-6 anni e lo facciamo in modo sempre più ostinato e migliore, le cose possono cambiare – conclude Nicolae –. L'importante è perseverare, perché se ci arrendiamo, torniamo al punto di partenza. Il che significherebbe 11 anni sprecati”.


Hanno contribuito a questo articolo Andrea Giambartolomei (lavialibera), Nacho Gallello, Álvaro García, Coral García Dorado (Maldita.es), Luiza Vasiliu, Victor Ilie e Andra Matzal (Scena9).

Questo articolo è stato realizzato nell'ambito di SoJo Europe, programma di promozione del giornalismo delle soluzioni, con il supporto di Journalism Fund Europe

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