2 settembre 2024
Oggi assistiamo all’ennesimo dibattito attorno alla legge sulla cittadinanza, con la diatriba sullo ius soli o lo ius scholae. Appartengo alla cosiddetta seconda generazione, sono nato in Toscana e ho ottenuto la cittadinanza italiana al compimento dei 18 anni. Ma non posso ignorare che attualmente nelle nostre scuole ci sono centinaia di migliaia di giovani in attesa di essere riconosciuti dal loro Stato. Il fatto che la questione riemerga puntualmente, senza nessun effettivo cambiamento, è annichilente e temo non sarà con questa legislatura che vedremo una riforma coerente con la realtà sociale. Ricordare che esistono italiani con origini e fisionomie altre rispetto ai nativi soltanto durante Sanremo o le Olimpiadi, quando vediamo atleti e atlete afrodiscendenti con la divisa azzurra, significa trascurare la quotidianità di centinaia di migliaia di giovani. Realtà che non è fatta solo di sportivi e cantanti, ma di personalità di qualunque sorta: studenti, insegnanti, tornitori, giornalisti, ingegneri e magari anche politici di primo piano in un prossimo futuro.
Non è vero che è ininfluente, nel nostro percorso di vita, dover attendere i 18 anni per ottenere la cittadinanza (sempre che vengano soddisfatti i criteri di reddito, residenza ininterrotta e i tempi di scadenza). Non è vero che è irrilevante una riforma sulla cittadinanza perché i numeri di naturalizzazioni sono già abbastanza elevati.
Tutte le grandi nazioni europee si sono confrontate con la multiculturalità e con la scelta di quale società realizzare. L’Italia, che ha una storia di immigrazione relativamente recente, avrebbe potuto osservare le evoluzioni dei paesi vicini e adottare politiche interne ponderate. Però non è successo. La legge sulla cittadinanza, basata sullo ius sanguinis, è ferma al 1992 e trasmette solo un messaggio: la società oggi è cambiata, ma non è ancora un luogo in cui tutti sono partecipi con pari diritti.
Dopo che mia madre è emigrata dal Marocco, io e mio fratello siamo stati presi in affidamento da una famiglia Italiana. Quello che ci accomuna alle storie delle seconde e terze generazioni è l'essere cresciuti in un paese che, durante gli anni di costruzione della nostra identità, non ci ha mai permesso di sentirci al posto giusto. Andare a rinnovare il permesso di soggiorno, il dover fornire le impronte digitali, non poter uscire dal paese per il permesso di soggiorno scaduto, l’incertezza di soddisfare o meno i requisiti e i tempi per la cittadinanza una volta compiuti i 18 anni, portano inevitabilmente a ridimensionarsi, a fare scelte meno azzardate, a non sognare un futuro dove diventare tutto quello che si vuole essere, ma solamente quello che ci è permesso essere.
Una volta cresciuto, le domande sul sentimento di estraneità rispetto a molte delle persone che mi circondavano hanno iniziato a trovare riscontro. È avvenuto soprattutto nel confronto con chi ha avuto un vissuto personale simile al mio, nella lettura di biografie affini o nei libri di sociologia. Ho preso parte a collettivi politici costituiti solamente da persone di seconda generazione, mi è capitato spesso di improvvisare conversazioni con altri studenti avvicinati soltanto con il pretesto dell’alterità estetica, tutto per capire se tale sentimento di estraneità fosse individuale o condiviso, strutturale. Così ho scoperto che a molte persone di seconda generazione è successo di essere messe in discussione per il loro modo di parlare così bene in italiano, o di sentire come propria la storia d’Italia, di frequentare spazi, scuole, luoghi pubblici o ricoprire alcuni ruoli lavorativi. Soprattutto se hanno una fisionomia o un’estetica troppo diversa dalla maggioranza.
Se pensate che un atto così formale e astratto come una legge non possa influire in modo incisivo sulla vita delle persone, vi sbagliate. Il tema della cittadinanza è estremamente connesso al dibattito su cosa e come dovrebbe essere una nazione. In un piccolo testo del 1882, Ernest Renan tenta di darne una definizione passando in rassegna le tesi più frequenti: è una comunità di lingua? Una comunità di stirpe e sangue? Dopo aver smentito queste ipotesi con vari esempi, il filosofo francese conclude che non è possibile dare una definizione attraverso termini oggettivi, ma l’identità nazionale è un fatto di coscienza e volontà di vivere insieme: "La nazione è un plebiscito di tutti i giorni". Ed è un plebiscito che deve essere costantemente curato ed annaffiato, altrimenti si sfalda. Ignorare, come avviene oggi, enormi fette della popolazione è una gravissima mancanza: è lo Stato il costruttore del sentimento nazionale, ed è lui che deve prendersi cura del processo di inclusione della società tutta.
Crediamo in un giornalismo di servizio a cittadine e cittadini, in notizie che non scadono il giorno dopo. Ma per continuare a offrire un'informazione di qualità abbiamo bisogno di te. Sostienici!
Se sei già abbonato o hai acquistato il numero in cui è presente l'articolo clicca qui per accedere e continuare a leggere.
Record di presenze negli istituti penali e di provvedimenti di pubblica sicurezza: i dati inediti raccolti da lavialibera mostrano un'impennata nelle misure punitive nei confronti dei minori. "Una retromarcia decisa e spericolata", denuncia Luigi Ciotti