Luigi Ciotti e, alle sue spalle, la stele che ricorda le vittime della strage di Punta Raisi
Luigi Ciotti e, alle sue spalle, la stele che ricorda le vittime della strage di Punta Raisi

Strage di Punta Raisi, oltraggio alla memoria

Il 23 dicembre 1978 il volo Alitalia Roma-Palermo si schiantò in mare a tre chilometri dallo scalo siciliano. I morti furono 108, 21 i sopravvissuti, 17 i corpi mai recuperati. Una storia di silenzi, depistaggi e verità sottaciute

Marco Panzarella

Marco PanzarellaRedattore lavialibera

23 dicembre 2025

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La sera del 22 dicembre 1978 i biglietti del volo Alitalia 4128 “Isola di Stromboli”, in partenza da Roma e diretto a Palermo, andarono a ruba in poche ore. I collegamenti con la Sicilia non erano così frequenti e salire su quell’aereo per molti significava tornare a casa e poter festeggiare il Natale con i propri cari. Chissà la felicità di chi riuscì ad acquistare un posto a sedere.

 

Purtroppo le cose non andarono per il verso giusto. Alle 00.38 del 23 dicembre il Dc-9 con a bordo 129 persone, tra passeggeri ed equipaggio, si schiantò in mare ad appena tre chilometri dalla pista d’atterraggio. I morti furono 108, 21 i sopravvissuti, 17 i corpi mai restituiti dal mare.

"In essa – scriveva L’Unità nell’edizione di domenica 24 dicembre, riferendosi alla tragedia – sono due gli aspetti più carichi di angoscia: che gran parte delle vittime fossero emigrati, di ritorno in Sicilia dall’estero o da altre parti d’Italia; che la morte li abbia stroncati alla vigilia di giorni di festa, chissà quanto a lungo e come ansiosamente aspettati, quando ormai si sentivano sulla soglia di casa. La beffa più crudele, come non fosse bastato il carico d’aver dovuto cercare lavoro e vivere anni e anni in regioni e paesi lontani".

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I fatti di Punta Raisi si collocano tra il disastro di Montagna Longa del 1972 (115 morti) e la strage di Ustica del 1980 (81 morti), tre disgrazie siciliane che condividono indagini approssimative, depistaggi e insabbiamenti. Nella vicenda di Punta Raisi si andò pure oltre, con ricostruzioni tendenziose e in certi casi offensive, nonostante fin da subito emersero anomalie e incongruenze mai chiarite.

I rottami furono messi all’asta e acquistati da uno sfasciacarrozze, che li sistemò sopra il suo ufficio per attrarre i clienti

Il relitto del DC-9 fu recuperato qualche giorno dopo dalla Marina militare e restano impresse nella memoria le terribili immagini dei cadaveri mutilati, appesi ai resti dell’aereo sollevato dalla gru. I rottami del velivolo, invece di essere analizzati, catalogati e custoditi, furono messi all’asta e acquistati per circa cinque milioni di lire da Angelo Montalto, uno sfasciacarrozze di Villabate, piccolo centro appena fuori Palermo, che pagò una grossa cifra per noleggiare un autocarro adatto al trasporto della fusoliera, più larga della sagoma massima consentita dal codice della strada per il libero transito.

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Il muso e altre parti sopravvissute all’impatto, caratterizzate dalla tipica livrea Alitalia, furono posizionate sul tetto dell’ufficio del demolitore, con vista sull’autostrada, per attrarre i clienti. "Molti automobilisti – raccontò all’epoca Montalto – si fermano per esaminare i resti dell’aereo e qualcuno ne compra un frammento come souvenir".

La fusoliera del Dc-9 precipitato al largo di Punta Raisi. Foto di M. Cometa
La fusoliera del Dc-9 precipitato al largo di Punta Raisi. Foto di M. Cometa

Acque agitate

In Italia alla fine degli anni Settanta il clima era rovente: il compromesso storico tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista aveva acuito la strategia della tensione e gli attentati terroristici erano all’ordine del giorno. Il culmine fu raggiunto con il rapimento e l’uccisione del presidente della Dc Aldo Moro, il 9 maggio 1978, lo stesso giorno in cui a Cinisi (Palermo) venne ritrovato il corpo dilaniato di Peppino Impastato, ammazzato da Cosa nostra.

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Nel resto del mondo la situazione era altrettanto tesa, con forti tensioni in Medio Oriente e la guerra a distanza tra Stati Uniti e Urss. Uno scenario geopolitico complesso, in cui la Sicilia giocava un ruolo di prim’ordine: una ventina d’anni prima, tra le province di Siracusa e Catania, gli Usa avevano costruito la base aerea di Sigonella, un hub strategico per l’aviazione americana e per la Nato, utilizzato anche per monitorare i movimenti dei sottomarini sovietici che affollavano le acque del Mediterraneo.

Inoltre, è risaputo che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta nei mari siciliani si svolsero numerose esercitazioni militari, molte delle quali coordinate proprio dalla Nato. Rispetto ai tre disastri aerei avvenuti in prossimità dell’Isola – attorno alla quale navigare e volare era tutto fuorché sicuro – l’analisi del contesto storico è quindi imprescindibile per avviare un processo di ricostruzione dei fatti. Anche se poi come dimostra la vicenda di Ustica – l’aereo esplose in volo, colpito da un missile – per giungere alla verità è necessario il lavoro di magistrati e giornalisti zelanti, oltre che la spinta delle associazioni dei familiari e della società civile.

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A proposito, di recente un professore di aerodinamica dell’Università di Palermo, Rosario Ardito Marretta, raccogliendo l’invito dei parenti delle vittime di Montagna Longa, ha realizzato uno studio che dimostrerebbe come la strage del ‘72, ai tempi archiviata con la solita formula “errore dei piloti”, in realtà sarebbe stata causata dall’esplosione di una bomba nascosta a bordo del velivolo. Nonostante siano trascorsi più di cinquant’anni, i familiari hanno chiesto alla procura di riaprire il caso.

Accuse ingiuste

Il volo 4128 partì da Fiumicino alle 23.52 e si schiantò sul mar Tirreno circa cinquanta minuti dopo il decollo. Nella lista dei passeggeri figurava anche il nome di Mario Scuderi, 35 anni, che tornava a Palermo dalla moglie incinta. La figlia che non ha mai conosciuto si chiama Cristina e da anni si batte insieme a Libera per tenere viva la memoria del padre, il cui corpo non venne mai recuperato, e di una storia sospesa nel tempo.

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"Sono state dette molte cose, ma la verità non è mai emersa – racconta a lavialibera –. Dissero che la colpa era dei piloti, ingiustamente accusati di aver confuso le luci riflesse dall’acqua con quelle della pista. Dissero pure che avevano bevuto champagne, che erano ubriachi e drogati, solo perché nelle tracce audio registrate dalla scatola nera si percepiva un rumore che ricordava quello di uno stappo. In effetti nella cabina trovarono una bottiglia, ma era ancora sigillata".

Gettare fango su chi non aveva voce per difendersi, in questo caso i piloti deceduti, era una prassi consolidata. E poco importava che il comandante Sergio Cerrina – suo padre dirigeva una scuola di pilotaggio all’aeroporto turistico di Bruino, in provincia di Torino – avesse alle spalle migliaia di ore di volo e una lunghissima esperienza nell’aviazione civile. Nell’ultimo anno aveva volato su Palermo dodici volte e in cinque occasioni era atterrato di notte.

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Al suo fianco, a bordo del DC-9, sedeva il primo ufficiale Nicola Bonifacio, in Alitalia dal 1971, che poco tempo prima, durante un ciclo di voli di addestramento, aveva compiuto 27 atterraggi sulla pista di Punta Raisi. Due piloti esperti e seri, che si cercò di screditare per archiviare quanto prima la questione.

Diedero la colpa ai due piloti, accusandoli di aver bevuto champagne in cabina. La bottiglia venne ritrovata, ma era ancora chiusa

Eppure, una serie di elementi oggettivi dimostrarono fin da subito che quella sera volare su Punta Raisi non sarebbe stato sicuro: il radiofono era disallineato e portava i piloti fuori rotta; lo strumento che consentiva l’atterraggio senza l’intervento del pilota, acquistato dopo la tragedia del ‘72, non era mai stato installato e si trovava ancora nei magazzini dell’Aeronautica a Roma; il sistema luminoso di avvicinamento era guasto e nessuno lo aveva riparato, nonostante le segnalazioni dei giorni precedenti.

A queste negligenze si aggiunse un episodio inquietante: un aereo con a bordo il ministro della Difesa Attilio Ruffini avrebbe chiesto alla torre di controllo di atterrare prima del volo di linea. Fu il settimanale Panorama, il 9 gennaio 1979, a rivelare l’indiscrezione, pubblicando l’intervista di un sottufficiale dell’aeronautica che riportava quanto riferitogli da un militare che la notte del disastro si trovava nella torre di controllo di Punta Raisi.

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Come ricostruito dalla rivista, quando diedero l’ordine a Cerrina di aspettare per far passare l’aereo con a bordo Ruffini, quest’ultimo si trovava in coda a una distanza di uno-due minuti di volo dal Dc-9 civile. "Dalla torre sapevano che era un rischio per il Dc-9 rimanere nei pressi dell’aeroporto, data la presenza di fattori ambientali turbolenti che rendono sempre difficile la manovra di avvicinamento alla pista", riferì il militare, aggiungendo poi: "Una cosa è certa: l’apparecchio con i 129 passeggeri non si trovava tecnicamente in emergenza, altrimenti il pilota avrebbe avvertito la torre e sarebbe scattato immediatamente l’allarme. Questo non è accaduto. Allora c’è da pensare che la traiettoria finale di atterraggio che il pilota aveva predisposto per l’apparecchio, non era ottimale ma era inferiore nei termini di quota: 150 metri invece dei 300 previsti. La torre in questo caso non poteva essere d’aiuto perché il radar di Punta Raisi segnala solo la distanza dell’apparecchio e non la quota. Inoltre, dato il tratto di costa e la presenza della montagna potrebbe esserci stato uno scambio di correnti marine e terrestri che ha provocato una depressione, rendendo sempre più critica la stabilità dell’apparecchio".

Il sottufficiale spiegò infine: "Sarebbe servito sequestrare la scatola di registrazione che si trova sull’apparecchio sul quale ha volato il ministro della Difesa. Ma molto probabilmente, non essendo stato almeno ufficialmente coinvolto nel disastro, il pilota di quell’apparecchio avrà già azzerato e riutilizzato i nastri".

Domande senza risposte

Peggio ancora andò con le operazioni di salvataggio. Il battello in dotazione alla capitaneria di porto di Terrasini aveva un motore fuori uso e non arrivò mai sul luogo della strage, dove invece giunsero i pescherecci locali che misero in salvo 21 passeggeri. I soccorsi ufficiali si presentarono solo due ore dopo, quando ormai era troppo tardi, mentre rimane incomprensibile il comportamento dell’ufficiale di una motonave italiana che navigava in zona e che decise di ignorare il messaggio di sos.

Se qualcosa è cambiato è merito della coscienza civile

Il relitto del Dc-9 fu localizzato cinque giorni dopo, nonostante i pescatori avessero ancorato in zona una boa di segnalazione, e soltanto il 15 gennaio un natante della Marina militare ripescò i resti dell’aereo e recuperò i cadaveri che si trovavano ancora all’interno del velivolo. Il 25 gennaio 1979 il sostituto procuratore di Palermo Vittorio Aliquò, tra le polemiche dei familiari, mise fine alle ricerche e nel conteggio finale 17 persone furono dichiarate definitivamente disperse.

Come da prassi, arrivò il tempo delle inchieste: quella penale, coordinata dalla procura di Palermo, quella del ministero dei Trasporti e un’altra di Alitalia. Ci furono delle interrogazioni parlamentari e direttori dell’aeroporto, ufficiali in servizio e responsabili dell’aviazione e della navigazione aerea finirono nel registro degli indagati. Per nessuno arrivò la condanna.

Marina di Cinisi (Palermo). La stele che ricorda la strage di Punta Raisi
Marina di Cinisi (Palermo). La stele che ricorda la strage di Punta Raisi

"Fa riflettere che la commissione d’inchiesta che si occupò del disastro fu nominata proprio dal ministro Ruffini, lo stesso che la sera del 23 dicembre atterrò a Punta Raisi", osserva Scuderi, che aspetta ancora le risposte ai suoi tanti interrogativi: perché un rumore di sottofondo nella registrazione audio ha reso indecifrabili parte delle conversazioni tra piloti e torre di controllo e cosa lo ha generato? Perché le trascrizioni audio provengono da un centro dove sono state decifrate, riscritte e tradotte da tecnici? Perché il relitto dell’aereo è stato venduto a uno sfasciacarrozze senza prima eseguire perizie balistiche e senza aver verificato che a bordo vi fosse dell’esplosivo?

Ci furono inchieste e interrogazioni parlamentari, ma i processi non portarono a nessuna condanna

Della tragedia se ne parlò qualche giorno, poi con l’avvento del nuovo anno la storia cadde nell’oblio. Oggi a ricordare le vittime non rimane che una stele commemorativa a Marina di Cinisi, spesso circondata dalla spazzatura, e un albero di ulivo piantato di recente nei giardini di Villa Niscemi, a Palermo. Ma, soprattutto, resta la rabbia dei familiari e il loro immutato desiderio di ottenere giustizia.

"Credo che tutti noi abbiamo il dovere della memoria, ne abbiamo la responsabilità. Dobbiamo chiedere verità e giustizia", disse don Luigi Ciotti il 23 dicembre 2010 ricordando le vittime. Parole ancora attuali.

Vento di mafia

"L’aeroporto di Punta Raisi ha tre nemici: una montagna alta mille metri a ridosso che costeggia da vicino tutta la pista principale, il mare che lo circonda da tre lati e i venti di ricaduta. Il pilota in fase di atterraggio è prigioniero di elementi imponderabili ed imprevedibili". Così diceva nel gennaio 1979 il deputato del Partito comunista Pio La Torre – ucciso tre anni dopo dalla mafia – durante un’interrogazione parlamentare sulla strage di Punta Raisi.

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L’episodio aveva rilanciato il dibattito sull’inadeguatezza dello scalo siciliano – che dal 1993 è intitolato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – costruito contro il parere dei tecnici e sotto la spinta dei politici dell’epoca. Il motivo oggi appare chiaro: Cosa nostra aveva intuito che realizzare l’aeroporto in una zona sotto il suo controllo avrebbe favorito il traffico di droga, attività fiorente. Non solo. Come scriveva il settimanale Lotta Continua il 29 dicembre 1978, "l’aeroporto si rivelò subito un fruttuoso affare di speculazione, a vantaggio soprattutto della mafia: i terreni litoranei vennero infestati da villini e la costruzione dell’autostrada Punta Raisi-Palermo aprì la via a nuovi progetti di investimento, sempre a suon di miliardi".

Cosa nostra aveva intuito che realizzare l’aeroporto in una zona sotto il suo controllo avrebbe favorito il traffico di droga

Nei giorni successivi alla strage, l’allora ministro dei Trasporti e dell’Aviazione civile Vittorino Colombo (Dc) ebbe perfino il coraggio di descrivere Punta Raisi come "uno degli aeroporti più sicuri, di prima categoria", mentre il direttore dello scalo, l’ingegnere Ugo Soro, riferì a un giornalista: "Per carità non diciamo anche questa volta che la sciagura è stata causata dall’inefficienza dell’aeroporto! Punta Raisi, mi creda, è solo sfortunato".

Cosa nostra dopo Riina

Peccato che i piloti la pensassero diversamente, come risulta leggendo il resoconto della seduta dell’Assemblea regionale siciliana del 24 gennaio 1979, durante la quale il deputato Giovanni Marino, intervenendo sul disastro aereo dell’anno precedente, lesse in aula lo stralcio di un’intervista realizzata da Candido Cannavò per La Sicilia al comandante dell’Alitalia Guido Fantoni, che spiegava: "Punta Raisi è un aeroporto criminale. Hanno dato dell’assassino al mio collega Cerrina; invece è stato assassinato insieme con i passeggeri del Dc-9, ed i colpevoli stanno in poltrona. Altre tragedie sono state evitate per un soffio e vi racconto una sconvolgente esperienza personale. Non solo non esiste l’Ils (il sistema di atterraggio strumentale ndr), ma i Vasis (le luci sulla pista ndr) non hanno mai funzionato. Io mi rifiuto di atterrare ancora al buio in quel buco nero; bisognerebbe promuovere subito un blocco notturno". L’intervista creò forte imbarazzo nell’apparato ufficiale della gestione degli aeroporti, tant’è che il giorno dopo sul quotidiano siciliano comparve un altro articolo dal titolo: "Il pilota ritratta".

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