Foto di Katerina Holmes/Pexels
Foto di Katerina Holmes/Pexels

Abbandono scolastico in Italia, la diaspora dei ragazzi fragili

L'abbandono scolastico precoce in Italia interessa ancora un numero troppo elevato di ragazzi. Un fenomeno esteso, con cause complesse e conseguenze dannose, a cui anche il PNRR prova a dare una risposta. Per contrastarlo serve agire su infrastrutture, formazione dei docenti e orientamento. E puntare in modo deciso sui Patti educativi di comunità

Francesco Rossi

Francesco RossiGiornalista e consulente lavialibera

Aggiornato il giorno 7 agosto 2024

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“La scuola ha un problema solo: i ragazzi che perde”. Potrebbe partire da qui, da questa lapidaria affermazione tratta dal libro Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, ogni discorso intorno al tema dell’abbandono scolastico. Il testo collettivo dei ragazzi della Scuola di Barbiana, guidati dal prete toscano, è ancora oggi in grado di illuminare il nocciolo profondo della questione, nonostante siano passati quasi 60 anni dalla sua pubblicazione. Gli studenti che abbandonano la scuola, infatti, dovrebbero essere la prima preoccupazione non solo dei loro genitori e dei loro insegnanti, ma di tutto il sistema scolastico, e forse anche dell’intero apparato politico.

Leggi il numero sull'istruzione, Scuola made in Italy

Quanti sono? Chi sono? Perché decidono di non entrare più in classe? Cosa si può fare per recuperarli e garantire loro il diritto all’istruzione? Sono domande dense e pesanti, che chiamano risposte difficili ma necessarie, perché il tema dell’abbandono scolastico è strettamente intrecciato con una lunga serie di questioni sociali ed economiche, dalla povertà educativa a quella materiale, dalla disoccupazione giovanile al blocco dell’ascensore sociale.

Cos’è l’abbandono scolastico

Per comprendere un fenomeno, però, è necessario partire dalla definizione dei suoi contorni. Solo così la realtà diventa misurabile. Cosa si intende, quindi, con abbandono scolastico? In Italia, per compilare le relative statistiche, viene considerato in stato di abbandono scolastico

"un ragazzo che smette di frequentare la scuola prima di conseguire un diploma di istruzione secondaria o una qualifica di formazione professionale"

Detto in altre parole, si tratta di giovani che non vanno oltre la licenza di terza media (che oggi si chiama scuola secondaria di primo grado). Una condizione che, è bene precisarlo, risulta comunque compatibile con l’assolvimento dell’obbligo scolastico, che si ferma a 16 anni, cioè prima della fine di qualsiasi scuola secondaria di secondo grado.

Abbandono scolastico vs dispersione scolastica

Un’altra distinzione terminologica importante (anche se sottile) è quella tra abbandono scolastico e dispersione scolastica. In questo secondo contenitore, infatti, ricadono anche tutti quei casi in cui non c’è un formale abbandono della scuola ma nella sostanza le competenze acquisite non corrispondono al titolo di studio conseguito. Nella dispersone, ad esempio, rientrano tutte le ipotesi di interruzione o rallentamento del percorso di studio, che molto spesso sono poi causa di definitivo abbandono.

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I dati dell’abbandono scolastico in Italia

Veniamo ora alla fotografia dell’abbandono scolastico in Italia, che viene scattata annualmente dal’Istat. I dati più recenti, relativi all’anno 2023, parlano di un 10,5 per cento di ragazzi tra i 18 e i 24 anni fermi alla licenza media. Fortunatamente, la fetta appare in calo rispetto agli anni precedenti (la quota era all’11,5 per cento nel 2022 e al 14 se si corre indietro fino al 2018) e addirittura più che dimezzata rispetto a 20 anni fa (25,1 per cento nel 2000).

Magra consolazione, però, perché se si allarga lo sguardo all’Europa, ci si rende conto che l’Italia rimane tra le ultime nazioni in classifica e sopra la media continentale, che è al 9,5%. L’obiettivo europeo di una quota di abbandono sotto il 9 per cento entro il 2030 appare ancora lontano ma non impossibile da raggiungere.

I numeri dell’Istat si rivelano utili anche per provare a tracciare un identikit dello studente tipo che la scuola perde per strada: maschio, straniero, proveniente da una famiglia con bassa scolarizzazione e residente nel Sud Italia

I numeri dell’Istat si rivelano utili anche per provare a tracciare un identikit dello studente tipo che la scuola perde per strada: maschio, straniero, proveniente da una famiglia con bassa scolarizzazione e residente nel Sud Italia. I ragazzi, infatti, hanno percentuali di abbandono scolastico molto maggiori rispetto alle ragazze: il 13,1 per cento contro il 7,6%. Pesantissimo anche il ruolo giocato dal luogo in cui si vive: al Sud il tasso sale al 14,6 per cento, mentre è l’8,5 per cento al Nord e il 7,0 per cento nel Centro. Così come gioca un ruolo determinante la famiglia di provenienza: se i genitori si sono fermati alla terza media, quasi il 24 per cento dei figli segue la stessa sorte. 

Infine, la nazionalità. Per glialunni non italiani rimanere in classe è molto più complicato. Problemi di integrazione, difficoltà nel mantenersi al passo con i compagni e inconvenienti con i documenti e la burocrazia fanno sì che la quota di coloro che rinunciano o vengono ritirati dai genitori schizzi addirittura al 27 per cento. La scuola italiana, quindi, non riesce a garantire un adeguato livello di istruzione a più di un ragazzo straniero su quattro. Oggettivamente, un’enormità. Difficile non pensare che anche l’intricata questione della cittadinanza abbia il suo peso, con la politica ancora impegnata a dividersi tra sostenitori dello ius soli, piuttosto che dello ius sanguinis o dello ius culturae.

Perché i ragazzi scelgono di abbandonare la scuola: le cause

L’analisi incrociata dei dati Istat e di quelli elaborati da altre realtà permette di fare un passo ulteriore e di provare a tracciare l’elenco delle possibili cause del fenomeno dell’abbandono scolastico, che, vista la sua complessità, non possono che essere molteplici.

Al centro c’è senza dubbio la condizione di fragilità dello studente che lascia la scuola. Fragilità che può declinarsi in diversi modi. Può avere a che fare, ad esempio, con le difficoltà di apprendimento, a loro volta figlie di una pregressa condizione di povertà educativa o magari di un contesto familiare sofferente. Le frequenti bocciature o l’accumularsi di risultati mediocri hanno un chiaro effetto scoraggiante. Così come non sono un mistero gli scogli a cui vanno incontro gli alunni qualificai come Bes (Bisogni educativi speciali) o Dsa (Disturbi specifici dell’apprendimento) oppure quelli disabili. Rientrano in queste casistiche anche gli alunni stranieri che non conoscono bene l’italiano e che non hanno nessuno a casa che li possa aiutare.

C’è poi un diverso tipo di fragilità, che deriva dal contesto socioeconomico in cui il bambino o il ragazzo è immerso

C’è poi un diverso tipo di fragilità, che deriva dal contesto socioeconomico in cui il bambino o il ragazzo è immerso. A fare più fatica nello studio, infatti, sono più spesso i figli di famiglie povere, senza una rete sociale di supporto, che magari abitano in quartieri di periferiadove sono assenti anche fondamentali stimoli esterni (come luoghi di aggregazioni giovanili, biblioteche, centri sportivi, eccetera). E anche laddove non è la povertà il vero problema del contesto può esserlo la collocazione geografica. Basti pensare alle zone rurali o a quelle dell’entroterra, dove spesso anche il semplice raggiungere la scuola diventa un’impresa.

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Oltre le fragilità del singolo ragazzo, però, ci sono anche quelle della scuola che frequenta. O forse sarebbe meglio dire del sistema d’istruzione nel suo complesso. Carenze che si manifestano sia sotto il profilo delle strutture che sotto quello del personale. Istituti fatiscenti (il 17,8 per cento è classificato come vetusto), con spazi scarsi e poche (o nulle) dotazioni; classi troppo numerose e prive di strumenti digitali; docenti spesso precari, e a volte poco formati e poco inclini all’innovazione didattica. Sono tutti elementi che contribuiscono a fare della scuola un luogo potenzialmente respingente, poco inclusivo, senza le forze adeguate per farsi carico dei propri compiti di istruzione ed educazione. Ovviamente non è ovunque così, ma lo è molto frequentemente proprio in quei luoghi dove ci sarebbe bisogno di un’istituzione scolastica forte.

L’Italia destina all’istruzione il 4% del Pil e l’8,2% della spesa pubblica totale, molto al di sotto della media europea (4,6% e 9,9%)

Di chi è la colpa? Anche in questo caso i responsabili sono molti. Il primo indiziato non può che essere il deficit di investimenti, sia in termini di quantità sia di qualità. L’Italia destina all’istruzione il 4 per cento del Pil e l’8,2 per cento della spesa pubblica totale; molto al di sotto della media europea (4,6 e 9,9). Inoltre, il 76 per cento di questi soldi se ne va per gli stipendi del personale (contro il 65 per cento in media in Europa).

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Le conseguenze dell’abbandono scolastico

Prima, però, è il caso di provare a capire cosa comporta, sul breve e lungo periodo, questa fuoriuscita anticipata dei ragazzi dalla scuola. La principale e più devastante conseguenza dell’abbandono scolastico è il suo essere una fonte di una disuguaglianza talmente strutturale che rischia di dispiegare i suoi effetti lungo tutta la vita di chi ne è colpito. Perché chi lascia precocemente gli studi è più facilmente destinato a un futuro fatto di lavori precari e malpagati, di problemi economici, di esclusione sociale. Una larga fetta di studenti che si fermano alla terza media, infatti, va poi a ingrossare le file dei cosiddetti Neet, coloro che non studiano, non si formano e non hanno un impiego. Statisticamente, le province con il tasso di abbandono scolastico più basso hanno anche una più alta percentuale di giovani occupati. Lasciare la scuola, quindi, rischia di bloccare seriamente l’ascensore sociale.

Cosa fare per contrastare l’abbandono scolastico e il ruolo del PNRR

La complessità delle cause che generano l’abbandono scolastico e l’ampiezza (e gravità) delle sue conseguenze si traducono nella necessità di progettare azioni di contrasto complesse, capaci di agire su più piani. Se ne possono identificare almeno tre: gli investimenti economici, la didattica inclusiva e l’orientamento.

Sul piano delle risorse stanziate per la scuola, un aiuto concreto dovrebbe arrivare dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). L’istruzione, infatti, rientra nella missione 4 del piano (circa 20 miliardi di euro) si sta cercando di: 

  • aumentare i posti in asili nido e scuole dell’infanzia;
  • diminuire il numero di alunni per classe;
  • riorganizzare le scuole sul territorio;
  • estendere il tempo pieno;
  • mettere in sicurezza e riqualificare l’edilizia scolastica;
  • potenziare le infrastrutture sportive;
  • aumentare le dotazioni digitali;
  • potenziare le competenze Stem (acronimo inglese delle seguenti discipline scientifiche: scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) in tutti i cicli di studio;
  • riprogettare le modalità di selezione del personale docente;
  • incrementare la formazione degli insegnanti.

Un’azione a tutto tondo, che punta ad incidere su tutte le criticità. Il piano, però, non procede spedito, secondo l’ultimo monitoraggio, realizzato dalla Fondazione Agnelli, al 31 dicembre 2023 la spesa effettivamente sostenuta era pari solo al 17 per cento del totale degli stanziamenti e il livello di avanzamento si fermava al 22 per cento. Molto marcati i divari tra i vari filoni, con Scuola digitale 4.0 che viaggia su un tasso di realizzazione del 40 per cento e la spesa per l'appianamento dei divari territoriali che è appena al 3,5 per cento.  

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Al di là del volume dei soldi destinati, però, una degli interventi più importanti del PNRR in tema scuola è quello che riguarda la formazione dei docenti (oltre che il loro reclutamento). Formazione che è anche un elemento chiave per costruire un antidoto all’abbandono precoce: la didattica inclusiva. Alla base di una scuola che sa accogliere tutti i ragazzi, anche e soprattutto quelli con difficoltà, c’è la capacità di adottare soluzioni didattiche che consentano una reale personalizzazione dei percorsi e degli obiettivi e che stimolino la crescita globale della persona, prima ancora che l’acquisizione di nozioni. Per riuscirci, però, bisogna formare gli insegnanti e dotarli degli strumenti giusti e di risorse adeguate.

A 14 anni, cioè l’età in cui ci si iscrive alla scuola superiore, è praticamente impossibile che un ragazzo abbia le idee chiare sul proprio futuro. Eppure, gli si chiede di scegliere un indirizzo di studi che potrebbe condizionarlo per sempre

Terza possibile cura: l’orientamento. A 14 anni, cioè l’età in cui ci si iscrive alla scuola superiore, è praticamente impossibile che un ragazzo abbia le idee chiare sul proprio futuro. Eppure, gli si chiede di scegliere un indirizzo di studi che potrebbe condizionarlo per sempre. Il minimo che si può fare è offrirgli un supporto adeguato, che duri nel tempo e non si esaurisca in un test attitudinale somministrato in terza media.

I patti educativi di comunità: la scuola come bene comune

Ciascuna battaglia per arginare l’abbandono scolastico precoce, però, non può che partire da una presa di coscienza: l’istruzione delle nuove generazioni è un bene comune, un patrimonio collettivo la cui tutela deve essere responsabilità di tutti. È un po’ questa l’idea che sta dietro ai cosiddetti Patti educativi di comunità, previsti per la prima volta dal Piano scuola 2020-2021 del ministero dell’Istruzione. Si tratta di accordi che puntano a coinvolgere tutti i soggetti che compongono la comunità educante di un determinato territorio. Non solo gli insegnanti e i genitori, quindi, ma anche una pluralità di soggetti pubblici e privati che sono a vario titolo coinvolti nella crescita dei bambini e dei ragazzi. A tutti loro viene chiesto di lavorare insieme attorno a precisi progetti didattici e pedagogici, sulla scorta di una visione cooperativa dell’educazione. Applicati ancora in modo discontinuo, i Patti educativi di comunità si stanno comunque rivelando un ottimo strumento di contrasto alla povertà educativa, come evidenziato anche dal Rapporto del Forum disuguaglianze e diversità.

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