Foto di Katerina Holmes/Pexels
Foto di Katerina Holmes/Pexels

Abbandono scolastico in Italia, la diaspora dei ragazzi fragili

L'abbandono scolastico precoce in Italia interessa ancora un numero troppo elevato di ragazzi. Un fenomeno esteso, con cause complesse e conseguenze dannose, che rischia di essere ulteriormente alimentato dall'emergenza pandemica. Per contrastarlo serve agire su infrastrutture, formazione dei docenti e orientamento. E puntare in modo deciso sui Patti educativi di comunità.

Francesco Rossi

Francesco RossiGiornalista e consulente lavialibera

27 gennaio 2022

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“La scuola ha un problema solo: i ragazzi che perde”. Potrebbe partire da qui, da questa lapidaria affermazione tratta dal libro Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, ogni discorso intorno al tema dell’abbandono scolastico. Il testo collettivo dei ragazzi della Scuola di Barbiana, guidati dal prete toscano, è ancora oggi in grado di illuminare il nocciolo profondo della questione, nonostante siano passati quasi 60 anni dalla sua pubblicazione. Gli studenti che abbandonano la scuola, infatti, dovrebbero essere la prima preoccupazione non solo dei loro genitori e dei loro insegnanti, ma di tutto il sistema scolastico, e forse anche dell’intero apparato politico.

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Quanti sono? Chi sono? Perché decidono di non entrare più in classe? Due anni di pandemia e la didattica a distanza a singhiozzo hanno aggravato la situazione? Cosa si può fare per recuperarli e garantire loro il diritto all’istruzione? Sono domande dense e pesanti, che chiamano risposte difficili ma necessarie, perché il tema dell’abbandono scolastico è strettamente intrecciato con una lunga serie di questioni sociali ed economiche, dalla povertà educativa a quella materiale, dalla disoccupazione giovanile al blocco dell’ascensore sociale.

Cos’è l’abbandono scolastico

Per comprendere un fenomeno, però, è necessario partire dalla definizione dei suoi contorni. Solo così la realtà diventa misurabile. Cosa si intende, quindi, con abbandono scolastico? In Italia, per compilare le relative statistiche, viene considerato in stato di abbandono scolastico

"un ragazzo che smette di frequentare la scuola prima di conseguire un diploma di istruzione secondaria o una qualifica di formazione professionale"

Detto in altre parole, si tratta di giovani che non vanno oltre la licenza di terza media. Una condizione che, è bene precisarlo, risulta comunque compatibile con l’assolvimento dell’obbligo scolastico, che si ferma a 16 anni, cioè prima della fine di qualsiasi scuola secondaria.

Abbandono scolastico vs dispersione scolastica

Un’altra distinzione terminologica importante (anche se sottile) è quella tra abbandono scolastico e dispersione scolastica. In questa secondo contenitore, infatti, ricadono anche tutti quei casi in cui non c’è un formale abbandono della scuola ma nella sostanza le competenze acquisite non corrispondono al titolo di studio conseguito. Nella dispersone, ad esempio, rientrano tutte le ipotesi di interruzione o rallentamento del percorso di studio, che molto spesso sono poi causa di definitivo abbandono.

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I dati dell’abbandono scolastico in Italia

Veniamo ora alla fotografia dell’abbandono scolastico in Italia, che viene scattata annualmente dal’Istat. I dati più recenti, relativi all’anno 2020, parlano di un 13,1 per cento di ragazzi tra i 18 e i 24 anni fermi alla licenza media. Fortunatamente, la fetta appare in calo rispetto ai due anni precedenti (la quota era al 14 per cento nel 2018 e al 13,5 per cento nel 2019) e addirittura dimezzata rispetto a 20 anni fa (25,1 per cento nel 2000).

Magra consolazione, però, perché se si allarga lo sguardo all’Europa, ci si rende conto che l’Italia occupa le ultime posizioni in classifica, facendo meglio solo di Islanda (14,8 per cento), Romania (15,6), Spagna (16) e Turchia (26,7). Inoltre, l’obiettivo continentale di una quota di abbandono sotto il 9 per cento entro il 2030 appare piuttosto lontano dall’essere raggiunto, mentre quello fissato per il 2020 (il 10) è stato palesemente mancato.

I numeri dell’Istat si rivelano utili anche per provare a tracciare un identikit dello studente tipo che la scuola perde per strada: maschio, straniero e residente nel Sud Italia. I ragazzi, infatti, hanno percentuali di abbandono scolastico molto maggiori rispetto alle ragazze: il 15 per cento contro il 10. Pesantissimo anche il ruolo giocato dal luogo in cui si vive, con leregioni del Sud che fanno registrare tassi di abbandono superiori al 19 per cento (la Calabria è al 20,2, la Sicilia addirittura al 23,4). Infine, la nazionalità. Per gli alunni non italiani rimanere in classe è molto più complicato. Problemi di integrazione, difficoltà nel mantenersi al passo con i compagni e inconvenienti con i documenti e la burocrazia fanno sì che la quota di coloro che rinunciano o vengono ritirati dai genitori schizzi addirittura sopra il 39 per cento (con un picco del 52 nel Sud Italia). La scuola italiana, quindi, non riesce a garantire un adeguato livello di istruzione a più di un ragazzo straniero su tre. Oggettivamente, un’enormità. Difficile non pensare che anche l’intricata questione della cittadinanza abbia il suo peso, con la politica ancora impegnata a dividersi tra sostenitori dello ius soli, piuttosto che dello ius sanguinis o dello ius culturae.

Un’altra interessante indicazione sul fenomeno dell’abbandono viene dall’analisi dei dati relativi alle fuoriuscite nei diversi corsi di studio. Il passaggio più delicato è quello dalle medie alle superiori, che fa segnare il passo all’1,14 per cento degli alunni. Negli anni seguenti, invece, la differenza la fa l’indirizzo scelto. I licei sono quelli che riescono a trattenere il maggior numero di ragazzi iscritti, con un tasso di abbandono minimo, all’1,6 per cento. La maglia nera va agli istituti professionali (7,2), mentre si collocano a metà strada i tecnici (3,8).

L’abbandono della scuola durante la pandemia 

Quello che invece i numeri Istat ancora non dicono pienamente è l’incidenza di due anni di pandemia (e soprattutto della conseguente didattica a distanza) sul fenomeno dell’abbandono scolastico. Le percentuali 2020 viste sopra sembrano essere tranquillizzanti ma per capire meglio bisognerà attendere i dati ufficiali del 2021.

Circa 1 studente su 4 è a rischio dispersione scolastica a causa della pandemia

Nel frattempo, però, diverse realtà private o del terzo settore hanno provato a indagare il fenomeno con campionamenti limitati ma significativi. E in questo caso i risultati sono tutt’altro che positivi, soprattutto sul fronte della dispersione scolastica. Vale la pena citarne tre: Ipsos, Save the children e Comunità di Sant’Egidio. Studi diversi ma che sono arrivati a conclusioni molto simili: circa 1 studente su 4 è a rischio dispersione scolastica a causa della pandemia. A incidere negativamente sono state soprattutto le continue interruzioni della didattica in presenza e le difficoltà tecnologiche che hanno impedito a molti alunni di seguire con regolarità le lezioni a distanza. A farne le spese, sottolinea Save the children, sono soprattutto bambini e adolescenti che vivono in quartieri fragili e in contesti familiari e sociali deprivati. Difficoltà che si traducono soprattutto nella cosiddetta dispersione implicita, cioè nel raggiungimento di un livello insufficiente di preparazione, come testimoniato anche dai test Invalsi.

Perché i ragazzi scelgono di abbandonare la scuola: le cause

L’analisi incrociata dei dati Istat e di quelli elaborati da altre realtà permette di fare un passo ulteriore e di provare a tracciare l’elenco delle possibili cause del fenomeno dell’abbandono scolastico, che, vista la sua complessità, non possono che essere molteplici.

Al centro c’è senza dubbio la condizione di fragilità dello studente che lascia la scuola. Fragilità che può declinarsi in diversi modi. Può avere a che fare, ad esempio, con le difficoltà di apprendimento, a loro volta figlie di una pregressa condizione di povertà educativa o magari di un contesto familiare sofferente. Le frequenti bocciature o l’accumularsi di risultati mediocri hanno un chiaro effetto scoraggiante. Così come non sono un mistero gli scogli a cui vanno incontro gli alunni qualificai come Bes (Bisogni educativi speciali) o Dsa (Disturbi specifici dell’apprendimento) oppure quelli disabili. Rientrano in queste casistiche anche gli alunni stranieri che non conoscono bene l’italiano e che non hanno nessuno a casa che li possa aiutare.

C’è poi un diverso tipo di fragilità, che deriva dal contesto socioeconomico in cui il bambino o il ragazzo è immerso. A fare più fatica nello studio, infatti, sono più spesso i figli di famiglie povere, senza una rete sociale di supporto, che magari abitano in quartieri di periferia dove sono assenti anche fondamentali stimoli esterni (come luoghi di aggregazioni giovanili, biblioteche, centri sportivi, eccetera). E anche laddove non è la povertà il vero problema del contesto può esserlo la collocazione geografica. Basti pensare alle zone rurali o a quelle dell’entroterra, dove spesso anche il semplice raggiungere la scuola diventa un’impresa. La Dad, infine, ha scoperto un ulteriore nervo dolorante: il digital divide, ovvero il divario tecnologico che affligge molte famiglie e che, di nuovo, può avere ragioni economiche o geografiche.

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Oltre le fragilità del singolo ragazzo, però, ci sono anche quelle della scuola che frequenta. O forse sarebbe meglio dire del sistema d’istruzione nel suo complesso. Carenze che si manifestano sia sotto il profilo delle strutture che sotto quello del personale. Istituti fatiscenti (il 17,8 per cento è classificato come vetusto), con spazi scarsi e poche (o nulle) dotazioni; classi troppo numerose e prive di strumenti digitali; docenti spesso precari, e a volte poco formati e poco inclini all’innovazione didattica. Sono tutti elementi che contribuiscono a fare della scuola un luogo potenzialmente respingente, poco inclusivo, senza le forze adeguate per farsi carico dei propri compiti di istruzione ed educazione. Ovviamente non è ovunque così, ma lo è molto frequentemente proprio in quei luoghi dove ci sarebbe bisogno di un’istituzione scolastica forte.

L’Italia destina all’istruzione il 4% del Pil e l’8,2% della spesa pubblica totale, molto al di sotto della media europea (4,6% e 9,9%)

Di chi è la colpa? Anche in questo caso i responsabili sono molti. Il primo indiziato non può che essere il deficit di investimenti, sia in termini di quantità sia di qualità. L’Italia destina all’istruzione il 4 per cento del Pil e l’8,2 per cento della spesa pubblica totale; molto al di sotto della media europea (4,6 e 9,9). Inoltre, il 76 per cento di questi soldi se ne va per gli stipendi del personale (contro il 65 per cento in media in Europa).

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Le conseguenze dell’abbandono scolastico

Una somma di fragilità, dunque, che ne genera altrettante. La principale e più devastante conseguenza dell’abbandono scolastico, infatti, è il suo essere una fonte di una disuguaglianza talmente strutturale che rischia di dispiegare i suoi effetti lungo tutta la vita di chi ne è colpito. Perché chi lascia precocemente gli studi è più facilmente destinato a un futuro fatto di lavori precari e malpagati, di problemi economici, di esclusione sociale. Una larga fetta di studenti che si fermano alla terza media, infatti, va poi a ingrossare le file dei cosiddetti Neet, coloro che non studiano, non si formano e non hanno un impiego. Statisticamente, le province con il tasso di abbandono scolastico più basso hanno anche una più alta percentuale di giovani occupati. Lasciare la scuola, quindi, rischia di bloccare seriamente l’ascensore sociale.

Cosa fare per contrastare l’abbandono scolastico e frenare la diaspora degli studenti

La complessità delle cause che generano l’abbandono scolastico e l’ampiezza (e gravità) delle sue conseguenze si traducono nella necessità di progettare azioni di contrasto complesse, capaci di agire su più piani. Se ne possono identificare almeno tre: gli investimenti economici, la didattica inclusiva e l’orientamento.

Sul piano delle risorse stanziate per la scuola, un aiuto concreto dovrebbe arrivare dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). L’istruzione, infatti, rientra nella missione 4 del piano. I soldi serviranno soprattutto a:

  • aumentare i posti in asili nido e scuole dell’infanzia;
  • diminuire il numero di alunni per classe;
  • riorganizzare le scuole sul territorio;
  • estendere il tempo pieno;
  • mettere in sicurezza e riqualificare l’edilizia scolastica;
  • potenziare le infrastrutture sportive;
  • aumentare le dotazioni digitali;
  • potenziare le competenze Stem (acronimo inglese delle seguenti discipline scientifiche: scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) in tutti i cicli di studio;
  • riprogettare le modalità di selezione del personale docente;
  • incrementare la formazione degli insegnanti.

Proprio la formazione del corpo docente è l’elemento chiave per costruire un antidoto all’abbandono precoce: la didattica inclusiva. Alla base di una scuola che sa accogliere tutti i ragazzi, anche e soprattutto quelli con difficoltà, c’è la capacità di adottare soluzioni didattiche che consentano una reale personalizzazione dei percorsi e degli obiettivi e che stimolino la crescita globale della persona, prima ancora che l’acquisizione di nozioni. Per riuscirci, però, bisogna formare gli insegnanti e dotarli degli strumenti giusti e di risorse adeguate.

A 14 anni, cioè l’età in cui ci si iscrive alla scuola superiore, è praticamente impossibile che un ragazzo abbia le idee chiare sul proprio futuro. Eppure, gli si chiede di scegliere un indirizzo di studi che potrebbe condizionarlo per sempre

Terza possibile cura: l’orientamento. A 14 anni, cioè l’età in cui ci si iscrive alla scuola superiore, è praticamente impossibile che un ragazzo abbia le idee chiare sul proprio futuro. Eppure, gli si chiede di scegliere un indirizzo di studi che potrebbe condizionarlo per sempre. Il minimo che si può fare è offrirgli un supporto adeguato, che duri nel tempo e non si esaurisca in un test attitudinale somministrato in terza media.

I patti educativi di comunità: la scuola come bene comune

Ciascuna battaglia per arginare l’abbandono scolastico precoce, però, non può che partire da una presa di coscienza: l’istruzione delle nuove generazioni è un bene comune, un patrimonio collettivo la cui tutela deve essere responsabilità di tutti. È un po’ questa l’idea che sta dietro ai cosiddetti Patti educativi di comunità, previsti per la prima volta dal Piano scuola 2020-2021 del ministero dell’Istruzione. Si tratta di accordi che puntano a coinvolgere tutti i soggetti che compongono la comunità educante di un determinato territorio. Non solo gli insegnanti e i genitori, quindi, ma anche una pluralità di soggetti pubblici e privati che sono a vario titolo coinvolti nella crescita dei bambini e dei ragazzi. A tutti loro viene chiesto di lavorare insieme attorno a precisi progetti didattici e pedagogici, sulla scorta di una visione cooperativa dell’educazione. Applicati ancora in modo discontinuo, i Patti educativi di comunità si stanno comunque rivelando un ottimo strumento di contrasto alla povertà educativa, come evidenziato anche dal Rapporto del Forum disuguaglianze e diversità.

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